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lunedì 15 aprile 2019

Scommessa militare. Dal Sudan all'Algeria

Da Khartum ad Algeri, dalla Thailandia al Myanmar, da molti Paesi africani fino alla lontana Indonesia. Sono ancora i militari a dettar legge, in modo più o meno evidente e con ruoli di primo o di secondo piano. Un piano che in Occidente, dove i militari sono apparentemente relegati solo a una funzione difensiva e stanno al di fuori delle politica, restano però ancora i protagonisti più o meno occulti degli investimenti nel settore della difesa: da quelli in tecnologia a quelli in sistemi d’arma. Ma l’attenzione in queste ore è tutta rivolta all’Africa dove, nel giro di poche settimane, due dittatori, espressione di una gerarchia di potere non certo estranea agli uomini in mimetica, si sono dimessi. O meglio, sono stati dimessi dai loro stessi confratelli, gli stessi che fino a qualche giorno prima erano al loro servizio. Sono stati infatti capi di stato maggiore e ministri della Difesa - Ibn Auf  in Sudan, Gaid Salah in Algeria - ad annunciare il cambio di regime. Arrestato il primo e dismesso il secondo per motivi di salute (salvo l’apertura di un dossier contro la “banda Bouteflika), Sudan e Algeria sono due modelli simili ma dall’evoluzione ancora imprevedibile. In comune hanno una pressione del basso che si è fatta forza ineludibile coniugando malessere e malcontento a necessità di cambiamento. Uguali sono stati i passi delle élite: delegittimare il presidente, prendere in mano le redini della corsa e promettere un periodo di transizione verso nuove elezioni.

 Eppure, in queste ore, il caso sudanese sembra distaccarsi dalla routine dei colpi di stato. La giunta sudanese praticamente non ancora formata (Ibn Auf ha lasciato) sembra aprirsi al dialogo al contrario di quanto avviene in Algeria dove la vecchia guardia non ne vuole sapere di concedere più di quanto ha deciso.

Se son rose – dice un vecchio adagio – fioriranno. Ma quanto ci si può fidare delle aperture sudanesi? Quanto un regime militare, financo abbozzato, può essere sincero nelle sue promesse? Il problema dei militari – salvo rarissime eccezioni – e' quello di sentirsi i depositari dei valori nazionali. Il che in un certo senso è anche vero. Ma questa consapevolezza, ordinata da uno spirito gerarchico di servizio, si trasforma di solito in un’autocratica visione del potere che riesce ad essere, al massimo, populista e paternalista. Il padre concede finché non gli sembri che il figliolo stia tirando troppo la corda. L’esatto contrario di ciò che vuole la regola democratica una testa un voto: ossia accettare i risultati anche quando non ci piacciono. Un argomento che con i militari non sempre funziona... ( continua su atlanteguerre)

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