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mercoledì 25 marzo 2015

L'accordo con gli Usa che non piace ai talebani (che condannano l'omicidio di Farkhunda)

Per ora è difficile dire se l'attentato di oggi a Kabul (sette morti e quasi quaranta feriti)  sia la risposta a quel che Ashraf Ghani è riuscito a ottenere a Washington dove ieri ha incontrato il presidente Obama. Quel che è certo è che gli americani rimarranno in forze più del previsto - anziché dimezzarsi entro fine 2015, i quasi 10mila soldati di stanza in Afghanistan ci resteranno fino a fine anno per diminuire poi nei due successivi - come è anche certo che un accordo simile, per quanto abbastanza scontato e ampiamente annunciato fra le righe, sicuramente non può piacere alla guerriglia che fa dell'estromissione degli stranieri il suo paletto più importante. Ma ci sono talebani e talebani e, almeno finora, l'attacco di Kabul non ha rivendicazione né diretta motivazione. Chi lo ha fatto non si sa. Si sa invece che Zabihullah Mujahed, il "portavoce" ufficiale, ha condannato l'orribile omicidio di Farkhunda, la donna accusata falsamente  di aver bruciato il sacro Corano. E se i talebani prendono posizione, video e foto  - dove chiaramente si vedono furia e volti degli assassini - permetteranno  probabilmente almeno di fare giustizia. Ma torniamo a Ghani il cui viaggio americano è stato accompagnato da questa orribile vicenda e da notizie di vari attentati di routine.

All'arrivo al Congresso, dove ha tenuto un discorso  ai parlamentari, è stato accolto da una standing ovation di cinque minuti. Poi ha fatto l'afgano buono e amico degli americani: riconoscente e fiducioso, tutto il contrario di Hamid Karzai che ha fatto ballare l'Amministrazione per mesi senza firmare l'accordo sulla sicurezza (Bsa) che ha di fatto spianato la strada - una volta siglato da Ghani -  a un nuovo rapporto con gli Stati uniti. Tutto ciò ha permesso di ottenere al duo afgano (c'era infatti anche Abdullah)  la promessa  dal segretario di Stato John Kerry a da quello alla Difesa Ashton Carter che ci saranno i soldi per mantenere esercito e polizia nazionali (350mila uomini) e che ci saranno anche 800 milioni di dollari per l'agenda di riforme del  governo. Quanto ai soldati che restano, non era probabilmente questo il vero obiettivo di Kabul, benché il risultato principale sia stato sbandierato come tale: con oltre 100mila soldati Nato già tornati a casa, l'Afghanistan è non peggiorato tanto dal punto di vista militare (aumentano attentati e vittime ma le bocce sono sostanzialmente ferme) ma soprattutto da quello economico. Centomila soldati e quasi altrettanti contractor diventano un affare che fa girar moneta oltre a costituire una sorta di garanzia psicologica per gli investitori. Se la macchina della guerra si ferma (senza che arrivi la pace) le cose  tendono a complicarsi. Kabul ha bisogno di soldi più che di soldati. Ghani ha portato a casa entrambi. La storia dovrebbe averci insegnato che aihnoi non v'è l'uno senza l'altro.

lunedì 6 ottobre 2014

Cencelli a Kabul

Ashraf Ghani, primo con riserva
Che lo si voglia chiamare impasse, stand-off, o “telenovela afgana” come un irriverente diplomatico di Kabul l'ha definita, la vicenda che per tre mesi ha opposto Ashraf Ghani ad Abdullah Abdullah si è conclusa con un accordo, benedetto dal segretario di Stato americano John Kerry, che ha, almeno nel breve periodo, risolto il contenzioso elettorale, funestato sin dagli esordi del ballottaggio (14 giugno) da pesanti accuse di brogli. L'accordo stabilisce una nuova figura istituzionale che consegna ad Abdullah, eterno secondo (fu sconfitto nel 2009 anche da Karzai) il ruolo di capo dell'esecutivo (executive chief), un ruolo relativamente ambiguo che lo equipara a un premier ma senza chiamarlo primo ministro, figura non prevista dall'ordinamento di una Repubblica presidenziale quale l'Afghanistan è. Se ad Ashraf Ghani, il colto tecnocrate formatosi negli Stati Uniti e già ministro di Karzai, è stata dunque consegnata il 21 settembre scorso la presidenza e, teoricamente, i pieni poteri, ad Abdullah viene concessa un'ampia capacità di manovra che il nuovo assetto istituzionale non ha ancora ben definito. Per ora, dicono i rumor, i due hanno concordato anche la scelta dei ministri, onorando un “manuale Cencelli” (formula che regolava in Italia la spartizione delle cariche pubbliche in base al peso elettorale dei singoli partiti e attribuita al democristiano Massimiliano Cencelli) che ha un precedente afgano di tipo etnico-tribale e che invece ora sancisce – per così dire – un ingresso nella “modernità” delle alchimie politiche di spartizione del potere.

mercoledì 1 ottobre 2014

L'accordo Kabul-Washingotn: un bel colpo per gli Stati Uniti meno per l'Afghanistan

Firmato ieri a Kabul l'accordo di partenariato strategico (Bsa/Bilateral Security Agreement) che chiude il contenzioso aperto da Karzai che si era rifiutato di firmarlo). Pakistan e Iran hanno fatto subito sentire la loro voce e con incredibile rapidità anche i talebani hanno diffuso sul loro sito una nota che definisce il Bsa un atto si servilismo.
Il mio commento alla rubrica Esteri di Radio popolare diretta da Chawki Senouci (per ascoltare clicca  qui)

martedì 30 settembre 2014

Gli europei e la guerra (in)finita

Immaginandoci, con un po' di fantasia, una possibile breve conversazione tra i muri della diplomazia europea il tono potrebbe essere stato questo: «Vai a Kabul per l'insediamento di Ghani»? «No, ho da fare: ora c'è il califfato di Al-Baghdadi: Guerra al terrorismo 2, la vendetta. L'Afghanistan ormai è un caso chiuso». In effetti a scorrere la lista delle personalità presenti alla prima transizione di potere nella Kabul post-talebana il parterre è davvero sconsolante: gli americani non sono mancati con una delegazione di tutto rispetto di dieci funzionari capeggiati dal consigliere di Obama John Podesta mentre il Pakistan ha inviato addirittura il suo presidente Mamnoon Hussain e l'India e l'Iran i vice presidenti Hamid Ansari e Mohammad Shariatmadari. Anche i cinesi hanno mandato una figura di profilo nel ministro Yin Weimin. Ma sul fronte occidentale solo sedie semivuote su cui, a rappresentare l'Europa, c'erano solo gli ambasciatori di stanza a Kabul, Gan Bretagna compresa. Al massimo gli inviati speciali. E' la guerra, bellezza, quella nuova sulle frontiere di Siria e Irak.

Abdullah  Abdullah(a sinistra) e Ashraf Ghani:
 da ieri premier e presidente in un governo
 bicefalo  frutto  di un accordo per far contenti tutti
Se la forma, specie in diplomazia, è sostanza, la scelta la dice lunga sul futuro dell'Afghanistan retto da Ashraf Ghani, l'uomo che, con Abdullah, i talebani hanno catalogato come un “impiegato” degli Stati uniti. Sono loro gli sponsor del papocchio istituzionale col quale nasce la stella del primo ministro facente funzioni in una repubblica che è presidenziale per Costituzione e dove nemmeno l'ombra di un passaggio parlamentare ha giustificato la bizzarra alchimia. Alchimia che per l'uomo della strada è l'ennesima trattativa sottobanco da cui i più maligni non hanno escluso che, oltre al potere, sia stato garantito qualche altro compenso all'eterno secondo (Abdullah fu sconfitto a suon di brogli anche da Karzai nel 2009). Malizie. Non resta del resto che far buon viso a cattivo gioco, di qua e di là dalle montagne dell'Hindukush: l'esperimento democratico, pompato come la grande conquista dell'era post talebana, è un misero accordo di potere degno di una trattativa da bazar mentre la guerriglia, data per sconfitta già nel 2001, ha segnato quest'anno il più alto numero di vittime dall'inizio della guerra che doveva consegnare alla Nato sullo scacchiere planetario il ruolo che fu delle Nazioni unite, sempre più solo spettatore. Bisogna accontentarsi.

martedì 17 giugno 2014

Carta vince carta perde. La sfida afgana tra Ghani e Abdullah

Lontani dagli occhi e soprattutto dal cuore di un pianeta che per più di dieci anni ha seguito le peripezie di un Paese ormai entrato nella categoria dell'oblio, sette milioni di afgani sono andati sabato a votare al secondo turno delle presidenziali per scegliere chi sostituirà l'inossidabile Hamid Karzai, giunto forse al termine della sua perigliosa avventura politica. La capitale appariva sabato più deserta che in un giorno di festa: vietata la circolazione, negozi serrati e, sorprendentemente, una corsa di primo mattino alle urne per intingere l'indice nell'inchiostro indelebile e firmare così la scheda. «Per le presidenziali non c'è un limite di seggio – spiega Timur, uno dei protagonisti della scena culturale locale – e quindi, per evitare lunghe code, tutti di buon'ora sono andati al seggio più vicino».

martedì 27 maggio 2014

Ultime dal fronte, resteremo in diecimila

Gli Stati Uniti lasceranno in Afghanistan dopo il 2014 9.800 soldati. Dopo una visita rapida a Bagram e una telefonata a Karzai, Obama ha deciso: nessuna Opzione zero. Eppure il Bsa non è ancora stato furmato, anzi non c'è nemmeno il nuovo presidente che lo deve firmare. Con questa dichiarazione a sorpresa, dopo la melina di questi mesi, le pressioni e i ricatti, l'America ammette: non ce ne vogliamo andare e non ce ne andremo. Resteremo in 10mila (anche se il presidente dice che l'azzeramento avverrà nel 2016). Meglio che niente. In attesa di un accordo che permetta anche qualche soldato in più sine die.

lunedì 26 maggio 2014

Buone notizie dal quadrante Sud

Con un doppio gesto distensivo il premier pachstano Nawaz Sharif si è recato oggi in India, dove Narendra Modi diventa ufficialmente primo ministro dell'Unione, per presenziare all'investitura cui si è presentato con un regalo: la liberazione di 151 prigionieri indiani (pescatori e relativi pescherecci) detenuti nelle carceri pachistane. Buona volontà che riapre forse le porte a un dialogo difficile, congelatosi dopo l'attacco a Mumbai del 2008.

Da segnalare anche la visita a sorpresa (ieri sera) di Barack Obama in Afghanistan. Un presidente fiducioso che il patto bilaterale di sicurezza (Bsa) sarà formato dal futuro capo di Stato afgano. Obama non ha incontrato Karzai (che quella firma ha negato) e ala sua visita ha avuto come teatro solo la base di Bagram.

giovedì 6 febbraio 2014

KARZAI SOTTO TIRO E LA SINDROME DI GANDAMAK

In tempi di negoziati di pace o meglio di tentativi, in Pakistan e in Afghanistan, su Karzai si scatena l'ennesima bufera che, a tempi alterni, lo caccia dalla povere all'altare e viceversa. Il New York Times di qualche giorno fa, ha scritto che il presidente ha un canale segreto di dialogo coi talebani. In un certo senso è una notizia vecchia (si dice da sempre), dall'altra parte è una notizia, basata su pure illazioni, che in questo momento aiuta soprattutto a diminuire la fiducia nei confronti del presidente afgano, considerato ormai non più un alleato affidabile. La notizia è comunque stata smentita drasticamente dai talebani. Notizia circolatata in un momento delicato e poco prima che Obama riunisse il consiglio col quale prende le decisioni più gravi. Ormai tutti sanno che Karzai non firmerà il Patto di sicurezza bilaterale (Bsa) e che si dovrà aspettare il dopo elezioni nel quale, come hanno chiarito nel primo dibattito televisivo pubblico cinque degli 11 candidati presidenziali (compresi quelli sostenuti da Karzai), il Bsa verrà firmato senza se e senza ma.

La posizione di Karzai ha una sua logica benché si tratti di una logica molto individuale: non lasciare di sé una cattiva immagine dopo tre mandati presidenziali. Abbiamo già accennato alla sindrome Shah Shuja, cui va ad aggiungersi anche la sindrome Gandamak, elemento che abbiamo sentito citare dallo stesso Karzai. Gandamak, oltre a essere un noto ristorante-locale di Kabul, frequentato da diplomatici, giornalisti, contractor e spioni, è un villaggio - o meglio un'area - nota per le molte battaglie tra afgani e inglesi e il punto di non ritorno, in un certo senso, della Prima guerra anglo afgana. Ma è soprattutto il luogo in cui fu firmato il Patto di Gandamak (Gandamak Treaty) nel 1879 tra Yaqub Khan e Lord Cavagnari, di origini italiane (nell'immagine durante il patto).

giovedì 23 gennaio 2014

10MILA SOLDATI E UN VIDEO


La lobby militare americana fa pressioni sul presidente e lancia l'opzione “10mila soldati” nel dopo 2014. Non uno di meno. E' quanto sarebbe emerso in una riunione tra gli uomini del Pentagono e il National Security Council secondo un'indiscrezione del Wall Street Journal, che riferisce di un incontro della settimana scorsa in cui l'esercito avrebbe avanzato la sua proposta: 10mila soldati non uno di meno dal 2014 sino al 2017, anno di fine mandato di Obama che potrebbe ridurre entro quella data il numero dei militari a zero e uscire così, a testa alta, dalla guerra che peggio ha sopportato.

Secondo il giornale il numero sarebbe definitivo e inopinabile a detta di Joseph Dunford, comandate in capo sia Usa sia Isaf/Nato in Afghanistan, che si aspetta un contributo dai partner della Nato di altri 2-3mila soldati. Fine dunque del rimpallo di numeri (3-6-9mila) di cui si era discusso sino ad ora. Dunford, che avrebbe l'appoggio del titolare della Difesa Chuck Hagel e del capo di Stato maggiore Martin Dempsey, oltreché – dice sempre il Wsj – del Dipartimento di Stato e della Cia, avrebbe detto chiaramente che o i soldati saranno 10mila o è meglio che gli Usa ritirino tutti i militari a fine 2014 (ora sono 37mila, destinati a scendere entro febbraio a 32mila, con l'appoggio di altri 19mila militari Nato).

I diecimila uomini sono necessari, per il Pentagono, sia a difendere le basi militari che l'Accordo di partenariato (non ancora firmato da Karzai) garantisce a Washington, sia a tenere in piedi attività anti guerriglia. Per fare il training dei soldati afgani e per garantire la rete di spionaggio americana in Afghanistan.

venerdì 17 gennaio 2014

IL RAID "ECCEZIONALE" E LA NEBULOSA COLLATERALE


Il distretto di Siahgird si trova a un centinaio di chilometri da Kabul e a una settantina dalla base americana di Bagram. Il fiume, le montagne, villaggi e villaggetti che affacciano sulla strada principale fiancheggiata dal corso d'acqua o su pendi scoscesi e spesso malamente asfaltati come in mille altri villaggi afgani. Siahgird (o Siah Gerd) non è però un luogo così sperduto in qualche gola o deserto ed è così vicino alla capitale, che, con un po' di immaginazione, potresti udire il rombo degli aerei che lo sorvolano. E che tra martedi e mercoledi hanno fatto terra bruciata in una vasta area del distretto. Il bilancio provvisorio conta già una ventina di cadaveri. Guerriglieri? Si alcuni; oltre una decina secondo quanto risulta al governo afgano, cinque secondo i talebani. Sul terreno sono rimasti anche un soldato di Isaf, un militare afgano e, naturalmente, dei civili. Si era detto di sei persone inizialmente ma poi il bilancio è salito a una donna e sette ragazzi. L'età non è nota. I nomi nemmeno. Nebulosa da effetti collaterali.

sabato 11 gennaio 2014

WASHINGTON-KABUL, L'INVERNO DEI VELENI


E' un tempo di veleni, incomprensioni, sgarbi reciproci e scontri quello che attraversa le gelide relazioni tra gli Stati Uniti e il governo di Hamid Karzai. Non passa giorno che non venga alla luce un motivo di frizione e la dose è rincarata da ambo le parti. Nessuno vuole cedere.






L'ultima grana in ordine di tempo riguarda 72 talebani o presunti tali deputati a varcare gli angusti confini delle proprie celle. La giustizia afgana, che da qualche mese li ha in custodia dopo che la prigione militare americana di Bagram (in alto nell'immagine aerea) è passata in mani nazionali, ha deciso che le accuse americane erano deboli. I casi esaminati sono stati quasi una novantina ma per 45 di loro la magistratura locale non ha trovato elementi certi e assai fragili per altri 27. Dunque liberi. Agli americani la cosa non è affatto piaciuta. Sulle prime, sia Washington sia Bruxelles han tenuto a freno la lingua (del resto gli afgani dovrebbero essere padroni in casa propria), poi però han cominciato a far fuoco e fiamme. Joseph Dunford, che riunisce nella stessa persona l'incarico di comandante Isaf/Nato e delle truppe americane di stanza in Afghanistan, ha detto chiaro e tondo di essere contro la decisione che per di più violerebbe il patto siglato in marzo quando le prigioni segrete di Bagram passarono in mano afgana.
Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato, ha parlato di “errore” e del fatto che, una volta liberi, i prigionieri si riveleranno una minaccia. Gli afgani però han fatto le cose per bene. Indagini di un apposito comitato e poi un vertice con gli 007 e gli uomini del presidente prima di prendere la decisione finale.

venerdì 10 gennaio 2014

IL MEMO DELL'AMBASCIATORE E IL NERVOSISMO DI WASHINGTON

Il Washington Post ha pubblicato le notizie contenute un memo segreto scritto dall'ambasciatore americano a Kabul, nel quale il diploJames B. Cunningham dice apertamente che con ogni probabilità Karzai non firmerà il Bsa, o accordo di partenariato strategico sulla sicurezza che Washington e Kabul han messo a punto ma che Karzai si è finora rifiutato di firmare. Gli americani insistono che l'accordo debba essere firmato non “nell'arco di mesi ma di settimane”, ma il diplomatico ha reso noto he di quella firma potrebbe non parlarsi che dopo le presidenziali di aprile. Gli americani (e la Nato di conserva) hanno paventato a Kabul l'opzione zero, ossia un ritiro definivo dei soldati col 31 dicembre 2014 e l'azzeramento dell'assegno promesso per pagare stipendi e acquisto di armi nonché di quello necessario a investire in sviluppo e strutture. 

Ma per ora la leva di questo ricatto ha sollevato solo una gran polemica e più gli americani insistono più sembrano rivelare ciò che non vorrebbero emergesse con troppa evidenza: ossia che non hanno nessuna intenzione di andarsene e che intendono controllare, con la Nato, più di una decina di basi militari nel cuore del Paese centroasiatico, a un pugno di chilometri dall'Iran, dal Pakistan, dalla Cina e dai Paesi dell'ex Urrs.

lunedì 6 gennaio 2014

LA SPY STORY CHE INFIAMMA KABUL

L'ultima polemica in ordine di tempo, riguarda un'anticipazione che è uscita a fine dicembre sul Washington Post, nella quale si da conto delle valutazioni contenute nel rapporto annuale dell'intelligence americana, o National Intelligence Estimate, che contiene anche la summa delle indicazioni di altre 16 agenzie di sicurezza straniere. Il quadro che emerge è a tinte fosche. Tinte così fosche che il rapporto è stato rispedito al mittente nientemeno che dal ex vice assistente del segretario alla Difesa americano, il signor David Sedney, che lo giudica troppo pessimistico.  In buona sostanza il messaggio dell'intelligence (e come potrebbe esser diverso?) dice che, una volta partiti i soldati Nato e americani, i talebani potranno senza meno riguadagnare posizioni annullando successi e vittorie di 13 anni di guerra e che il Paese rischia di precipitare nel caos. Questo refrein lo abbiamo già sentito e non dice nulla di nuovo ma c'è un passaggio illuminate: cito dal Post: The report predicts that Afghanistan would likely descend into chaos quickly if Washington and Kabul don’t sign a security pact that would keep an international military contingent there beyond 2014 — a precondition for the delivery of billions of dollars in aid that the United States and its allies have pledged to spend in Afghanistan over the coming years. (il grassetto è mio)
In the absence of a continuing presence and continuing financial support,” the intelligence assessment “suggests the situation would deteriorate very rapidly,” said one U.S. official familiar with the report”.

giovedì 12 dicembre 2013

STRAGE DI KUNDUZ (2009): NESSUN COLPEVOLE

La magistratura di Bonn, riferiva ieri Aljazeera, ha respinto l'accusa contro le forze armate tedesche per un raid aereo della Nato che uccise decine di civili
nel 2009 nei dintorni di Kunduz. Il tribunale ha stabilito che non c'è alcuna prova che l'ufficiale tedesco che chiese il sostegno di aerei da guerra per bombardare i dirottatori talebani di due autobotti di gasolio (ma a cui si stava rifornendo la popolazione civile locale) abbia violato le sue regole d'ingaggio. Secondo l'accusa, rappresentata da Karim Popal, un avvocato afghano - tedesco che rappresenta 79 delle vittime, quel fatto portò a una strage premeditata di almeno 137 persone, che ora chiedono i danni alla Germania. Ma per il ministero della difesa tedesco il colonnello Georg Klein, che chiese il sostegno aereo, ha risposto a ordini impartiti nell'ambito della missione Nato in Afghanistan e non agiva dunque esclusivamente per conto di Berlino. Insomma la Germania si gira dall'altra parte e sottoscrive in un certo senso che non vi fu nessun colpevole: né la Nato, né i singoli piloti, tantomeno chi chiese aiuto dall'aria. Gli afgani si rivolgessero alla ruota infame del loro destino.

giovedì 5 dicembre 2013

RICATTO AFGANO

Visto dall'Europa e visto dall'Afghanistan il summit dell'Alleanza si trasforma in una morsa che non lascia via d'uscita a Kabul. E gli Usa dettano l'agenda

A quattro mani con Giuliano Battiston da Kabul


Visto dall'Europa il vertice dei ministri degli Esteri della Nato conclusosi ieri a Bruxelles, cui ha partecipato anche il capo della diplomazia russo Lavrov, si può vedere in tanti modi ma essenzialmente come il tentativo di rilanciare il ruolo di un'Alleanza in cerca sempre di qualche nemico da combattere, dopo che anche al vecchio orso post sovietico s'è teso il ramoscello di ulivo. Il summit non sembra aver partorito granché anche se c'era molta attesa sull'Afghanistan, un tema alla fine un po' defilato e sui cui la Nato sembra per ora soltanto prendere tempo.

Su un altro fronte, quello delle relazioni internazionali, l'organizzazione diretta da Rasmussen fa di tutto per mostrare muscoli e competenze anche dove non le ha. Affronta il dossier siriano, bacchetta la Georgia, sigla infine un accordo con Mosca con cui avvia un progetto pilota per l'eliminazione di munizioni obsolete nella regione di Kaliningrad, progetto che sarà pagato attraverso un fondo fiduciario spalmato su cinque anni e stimato a circa 50 milioni di euro. Sorrisi col vecchio nemico che purtroppo non c'è più, tanto che l'Alleanza ha dovuto trasferirsi cinquemila chilometri più a Est per impantanarsi in Afghanistan dove ora vuole restare ad ogni costo, salvo minacciare di volersene andare con armi e bagagli dopo il 2014. Che non lo voglia affatto fare è in realtà così evidente che nemmeno lo spauracchio di chiudere baracca risulta credibile, a maggior ragione se è vero quanto una fonte anonima ha spifferato alla viglia del summit a RadioFreeEurope. E cioè che, appena Kabul avrà firmato il patto bilaterale strategico militare con gli Usa (Bsa), anche la Nato proporrà il suo a Kabul, che includerebbe l'uso di quattro basi militari permanenti.

mercoledì 27 novembre 2013

LA VITTORIA AMERICANA NEL PATTO CON KABUL

Sono gli americani a uscire vittoriosi dalla Loya Jirga che si è appena conclusa a Kabul e che ha detto si all'accordo di partenariato strategico (Bsa) che definisce l'orizzonte politico, e soprattutto militare, tra Washington e Kabul. Almeno sino al 2024 e comunque a partire dal 2014. Il patto garantisce la presenza militare americana anche se non ne stabilisce esattamente il numero che è stato valutato tra i 10 e i 16mila uomini. Militari che resterebbero in Afghanistan con tre compiti principali: quello di proteggere le basi di cui gli americani conserveranno l'accesso; quello di eseguire operazioni “combat” dove richieste; il mandato infine di assistere e consigliare il nuovo esercito afgano (Ana), ormai alla fine del suo ennesimo percorso di ricostruzione per mano alleata (gli ultimi a rinnovarlo furono i sovietici).

Seppur con qualche distinguo, gli americani hanno ottenuto tutto ciò che volevano: l'immunità per le loro truppe, che saranno sottratte, in caso di reato, alla giurisdizione dei tribunali locali per essere giudicati in America; il controllo di alcune basi militari e l'uso in proprio di quella di Bagram; la possibilità di agire fuori da esse seppur preavvertendo gli afgani. Per ottenere il si, gli americani hanno utilizzato tre forti mezzi di pressione: quello psicologico, giocando sul timore di un'opzione zero, ossia di un ritiro immediato di tutti i soldati stellestrisce se il Bsa non fosse stato firmato. Quello economico, con 4,1 miliardi di dollari l'anno per l'Ana, di cui la metà pagati da Washington. E quello strategico: il patto prevede infatti il sostegno americano in caso di conflitto che, a Kabul, significa guerra con Islamabad o Teheran.

lunedì 25 novembre 2013

PERCHE' L'ACCORDO DI GINEVRA AIUTA ANCHE KABUL


E' difficile che, nell'opinione comune, si metta in relazione la guerra in Afghanistan con l'Iran. Di solito si pensa, per restare nella regione, al Pakistan. O, per i più avveduti, all'India, che gioca via Afghanistan il suo poker con il Pakistan che, a sua volta, considera il Paese di Karzai come la pedina da giocare strategicamente in caso di guerra con l'India (la famosa teoria della profondità strategica cara ai generali di Islamabad). Ma anche per Teheran l'Afghanistan ha un'importanza strategica. Sia rispetto al Pakistan, con cui non corrono ottimi rapporti, sia rispetto agli Stati uniti. Col Pakistan è abbastanza evidente: i pachistani non solo sono sunniti ma tollerano una pletora di gruppi settari che fanno strage di sciiti. Gruppi settari che godrebbero anche del sostegno dell'Arabia saudita, acerrimo nemico di Teheran. Quanto agli Stati Uniti, l'Iran ha mandato segnali chiari: in caso di attacco, Teheran giocherebbe la sua carta afgana. Come? Attraverso un'alleanza tattica stretta con alcuni gruppi talebani che secondo l'intelligence afgana sono sostenuti da Teheran, specie nel settore Ovest del Paese che confina con l'Iran. Ora, l'idea che vada in porto l'accordo con gli Usa, dibattuto in questi giorni e poi approvato dalla Loya Jirga, per Teheran significava due cose: che gli americani sarebbero rimasti ancora a lungo alle porte di casa e che avrebbero (come avranno) debito accesso alla base aerea di Shindand, a un pugno di chilometri dalla frontiera. Teheran finanzia parte della stampa afgana, sostiene parte dell'insurrezione (benché per anni abbia osteggiato e temuto i talebani, cosa che farebbe ancora se tornassero al potere) e da anni guida una crociata contro l'invasione e il Bsa non le sarebbe proprio piaciuto. Ma dopo l'accordo di Ginevra le cose potrebbero cambiare e la posizione ammorbidirsi. Anche per quel che riguarda l'Afghanistan.

domenica 24 novembre 2013

LOYA JIRGA DICE "SI" AL PATTO BILATERALE CON GLI USA

Per i 2500 delegati della Loya Jirga, l'Afghanistan deve dare la sua approvazione al Security and Defense Cooperation agreement between the United States of America and the Islamic Republic of Afghanistan, il patto bilaterale strategico, poltico e militare che legherà per almeno dieci anni Kabul a Washingotn. Così, riferisce l'agenzia Pajhwok si stanno esprimendo  le cinquanta commissioni che hanno studiato e dibattuto l'accordo nei giorni scorsi. Diverse le sfumature, i distinguo, gli approfondimenti. E diversa l'attitudine sui tempi: entro sei settimane (cioè entro al fine dell'anno) o più in là, come vorrebbe il presidente Karzai secondo cui il Bsa, una volta approvata anche dal parlamento,deve essere sottoscritto dopo aprile, ossia dopo l'elezione presidenziale prevista tra cinque mesi.

Con un twitt, la giornalista della Bbc Karen Allen dice che il discorso finale di Karzai ha fissato un paletto: il patto sarà nullo se gli americani lo dovessero tradire entrando nella case degli afgani. Quanto alla tempistica, Karzai insiste: il patto deve essere firmato dal nuovo presidente eletto in aprile. Il presidente pone comunque tre condizioni per la firma del Bsa: le elezioni, l'impegno a evitare raid nelle case degli afani, passi avanti nel processo di pace. Le carte dunque sono ancora tutte sul tavolo.

Su un altro fronte intanto, la delegazione dell'Alto consiglio di pace afgano, incaricato

sabato 23 novembre 2013

AFGHANISTAN, TUTTE LE BASI DEGLI AMERICANI

Quante basi gli americani conserveranno in Afghanistan? Il capitolato 7 del Security and Defense Cooperation agreement between the United States of America and the Islamic Republic of Afghanistan dice al titolo Use of Agreed Facilities and Areas: 


1. Afghanistan hereby provides access to and use of the agreed facilities and areas, as defined in paragraph 7 of Article 2, solely to implement the purpose and scope of this Agreement, taking into account locations of ANDSF and the local Afghan population. Access to and use of such agreed facilities and areas for other purposes shall be as mutually agreed by the Parties. (A sinistra una veduta aerea della base più importante: Bagram, a 70 km da Kabul)

Ma cosa dice esattamente il paragrafo due del capitolo 7? Ci ha pensato l'agenzia Pajhwok a farcelo sapere:

“L'accordo sulla sicurezza (BSA) bilaterale...mostra che nove basi sarebbero state concesse alle forze americane per il loro uso in otto province... l'Afghanistan – scrive l'autorevole agenzia di stampa afgana - fornirà gli Stati Uniti accesso e uso delle basi aeree di Kabul, Bagram, Mazar-i-Sharif, Herat, Kandahar, Shorab (Helmand), Gardez, Jalalabad e Shindand (vicino al confine iraniano ndr). Punti ufficiali di imbarco e sbarco sono la Bagram Airbase, l'aeroporto Internazionale di Kabul, la Kandahar Airbase, la Shindand Airbase, l'Herat International Airport (ricostruito dall'Italia ndr) e quelli di Mazar -i - Sharif e Shorab (Helmand). L'accesso via terra include Torkham nella provincia orientale di Nangarhar (passo Khyber ndr)), Spin Boldak nella provincia meridionale di Kandahar, Torghondi a Herat occidentale, Hairatan nel Nord Balkh ed Ella Khan Bandar nella provincia di Kunduz.

giovedì 21 novembre 2013

TUTTI I NODI DEL BSA


Bsa è l'acronimo di Security and Defense Cooperation Agreement between the United States of America and the Islamic Republic of Afghanistan. Il documento, che in questi giorni deve essere approvato dalla Loya Jirga (o assemblea tribale) e che potete leggere (ultimo draft ufficiale) qui, deve definire l'accordo di partenariato politico e militare tra i due Paesi. Dopo il passaggio assembleare a Kabul, iniziato oggi in una grande tenda allestita nel cuore della città, toccherà poi al parlamento. I nodi irrisolti riguardano l'immunità dei soldati americani dalla giurisdizione dei tribunali afgani (si veda l'articolo 13 dell'accordo) ma anche cosa potranno o non potranno fare i soldati stellestrisce dopo il 2014, ossia determinare la loro possibilità di azione in autonomia(che gli States vogliono conservare). Infine Karzai aveva chiesto scuse ufficiali scritte da Obama per gli errori commessi in passato. Ma a quanto pare non se ne parla nemmeno. Sul piatto della bilancia ci sono, se il Bsa viene approvato, 4 miliardi di dollari e la permanenza di soldati americani in Afghanistan (10, forse 15mila) dopo il 2014 e fino al 2024, il che significa per Kabul poter contare su questo potente alleato in caso di attacco esterno. Se il Bsa non va in porto gli Usa lascerebbero (a malincuore) il Paese. Al fine la mediazione sarebbe passata per la rinuncia a raid americani in case private ma con l'accettazione del governo afgano sull'immunità. Adesso però tocca alla grande Jirga.