Perché i generali birmani hanno detto si all'Onu
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Cosa è successo nelle 24 ore di ieri nei palazzi del potere della giunta militare birmana? Distanti dal disastro che ha investito la stessa Rangoon (o Yangoon come viene chiamata adesso), rinchiusi negli edifici costruiti appositamente per i generali nella nuova capitale situata nel centro del paese, i militari birmani si sono trovati a fare i conti con un'emergenza umanitaria che, molto rapidamente, superava la prima stima ottimistica di 350 morti, la cifra ufficiale nota sino a domenica pomeriggio. E mentre sui siti dell'opposizione in esilio, gli unici sui quali poter apprendere qualcosa che andasse oltre le mezze verità del regime, si raccontava la verità, anche i generali devono aver capito che non potevano mantenere il silenzio troppo a lungo. Che dovevamo insomma andar oltre le scarne immagini diffuse dalla televisione di stato o dall'unico giornale, “La luce del Myanmar”, che diffonde solo le notizie che piacciono agli uomini in divisa.
Nel pomeriggio hanno così deciso di fare una prima stima di 4mila morti e 3mila dispersi. In seguito, il capo della diplomazia birmana, Nyan Win, era però costretto ad ammettere il timore che il bilancio potesse arrivare a 10mila vittime. Infine l'agenzia cinese Xinhua, che citava fonti della giunta, azzardava una stima di almeno 15mila morti. I cinesi sono i meglio informati sulle vicende birmane per il semplice fatto che i generali si fidano di questi alleati inossidabili, come ben si è visto in più di un'occasione. Paradossalmente, l'antipatica indiscrezione filtrava sui media di un paese che non brilla certo per una stampa indipendente. Passa pochissimo tempo e arriva anche un'altra novità: dopo l'ammissione della catastrofe, i generali si dicono disposti ad accettare gli aiuti internazionali. Ammettono dunque di non essere in grado di gestire l'emergenza e, soprattutto, accettano che in Birmania mettano piede degli stranieri: occhi indiscreti in un paese sigillato se appena si cerca di andar oltre la fotografia di rito alla pagoda.
Il dramma umano e ambientale deve essere dunque così vasto da aver indotto i generali a fare quello che, in un'altra occasione recente, non avevano voluto fare: erano i giorni dello tsunami che aveva colpito, come in India, Thailandia, Indonesia, anche le coste birmane. Ma la giunta aveva rifiutato sia di dare un bilancio della catastrofe, minimizzando i danni, sia di concedere agibilità ai funzionari dell'Onu, ostacolati nella loro missione di soccorso.
Il dramma umanitario ha dunque nuovamente scosso le basi di un consenso popolare al lumicino E di conseguenza ha scosso anche il tragico immobilismo birmano costringendo i militari ad ammettere i danni, le vittime, la cifra della strage ambientale. I generali sanno che in questi giorni si gioca anche la partita del referendum sulla nuova costituzione, un clone del pensiero unico militare su cui sono chiamati a dire la loro i cittadini. A quanto sappiamo le votazioni, previste per sabato, non solo sono confermate ma sarebbero già iniziate: con l'obbligo di scrivere nome e cognome sulla scheda e dunque con l'impossibilità di esprimere un parere reale. Ma i generali, già scossi dalla rivolta dei monaci dell'anno scorso, temono forse che la catastrofe, con l'inevitabile coda di aumento dei prezzi e di scontento popolare, mandi a monte la perversa costruzione del referendum e l'ostentata operazione di maquillage condotta, almeno sinora, con la sicumera di chi sa di avere in mano, nonostante la fiammata “amaranto” di qualche mese fa, il controllo del paese. Un controllo che il ciclone ha reso più fragile.
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