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giovedì 18 luglio 2024

L'eredità ideologica di Sukarno


Un podcast dell'Associazione Lech Lechà  sulle origini ideologiche che ispirano la leadership odierna a capo del più vasto e popoloso arcipelago mondiale

Partendo dal famoso tentativo platonico ti convertire alla filosofia il tiranno di Siracusa, una serie di podcast dell’Associazione svuole ricostruire le influenze filosofiche e culturali che hanno formato la visione del mondo dei principali leader mondiali. Qui l’eredità indonesiana del Presidente Sukarno (Kusno Sosrodihardjo), del nostro Emanuele Giordana.

Per associarsi a Lech Lechà scrivete a info@lechlecha.me

Ascolta la puntata sull’Indonesia qui

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L’immagine è tratta da un fotogramma del video The Bandung Conference Commemorated (Black Liberation Media)

Il testo

L’Indonesia non è solo un arcipelago di 17mila isole che ospitano la comunità musulmana più grande del pianeta. Tra i suoi 290 milioni di abitanti ci sono popolazioni molto diverse che parlano lingue differenti, credono in altre fedi e praticano la tradizione – adat in indonesiano – in forme prettamente autoctone. Difficile dunque trovare una sola vera radice comune in un mondo insulare per sua stessa conformazione geografica spezzettato in paesaggi – naturali, umani e dunque culturali – molto diversi gli uni dagli altri. E’ questa una di quelle eredità che in Indonesia, come in India, chi gestiva le colonie d’Oltremare, ha lasciato - nella seconda metà del secolo scorso - alle neonate élite nazionali di entità statuali enormi che non esistevano prima delle dominazioni coloniale europea: britannica in India, olandese in Indonesia.

La nuova nazione indonesiana dovrà così trovare tra le sue radici culturali e in quelle suggerite dall’esterno il motivo del suo essere uno Stato unitario che si formerà a partire dal 1945 per essere finalmente riconosciuto come tale – cioè indipendente – nel 1949. E per capire oggi cosa ispira i governi di Joko Jokowi Widodo o di Prabowo Subianto, dobbiamo fare un passo che ci porta ancora più indietro.

Prima dell’era coloniale, che inizia con la creazione nei Paesi Bassi della Vereenigde Oost-Indische Compagnie nel 1602 (sarà sciolta solo nel 1800) ci sono solo due esempi in cui due regni prettamente marittimi unificano in un certo senso una buona parte dell’arcipelago indonesiano. Il primo è il regno di Srivijaya – dal VII al XIII secolo - che era probabilmente una confederazione di diverse città Stato che si svilupparono in diversi porti della regione. Poi fu la volta del regno giavanese di Majapahit sorto nel 1293 e scomparso nel 1520. Un regno del mare o, come lo si vuol chiamare, una talassocrazia. Erano entrambi dominatori marittimi con scarsa penetrazione nel territorio. L’Olanda invece unifica con la forza l’Indonesia che oggi conosciamo e ne favorisce dunque un processo, benché forzato, di aggregazione.

Nel Novecento maturano, come in altre parti del mondo, le spinte nazionaliste all’interno dei Paesi coloniali. L’ispirazione viene sia dalle società liberali occidentali sia dall’esempio della Rivoluzione d’Ottobre in Russia e dalla Lunga marcia di Mao in Cina. I modelli si fondono con altri due: il messaggio comunitario e universale dell’islam – diffuso da secoli nell’arcipelago - e la tradizione locale. A incarnare questa capacità di mediazione culturale è, in Indonesia, soprattutto un personaggio: Ahmed Sukarno.

Sukarno rispetta l’islam ma la sua impostazione è laica. Saranno altri in Indonesia a raccogliere il messaggio dell’islam. Sukarno viene influenzato dal movimento Budi Utomo che, all’inizio del 900, accende la prima fiammella nazionalista. E’ un movimento progressista ma moderato, dunque non indigesto ai padroni della colonia. Per Sukarno le cose sono diverse: Sukarno vuole l’indipendenza a ogni costo, anche col ricorso alle armi. Guarda ai modelli che vengono da Oriente più che a quelli che vengono dall’Occidente. Ed è convinto di poterli declinare in senso nazionale, fondendoli con la cultura locale o, per meglio dire, con quella giavanese - e in parte balinese, culture di corte ma fortemente comunitarie e basate su una forte solidarietà del villaggio.

Quando finalmente Sukarno arriva al potere, sviluppa nel tempo un'identità culturale e ideologica assolutamente nazionale e autoctona. Pratica una sorta di sincretismo tra suggestioni esterne e realtà nazionale. E intanto, nel 1955, ospita la Conferenza dei non allineati afro asiatici a Bandung: ci sono Tito, Nasser, Nehru, Chou en Lai e l’africano Kwame Nkrumah. E’ un’epoca di grandi speranze e l’Indonesia, come ha spiegato bene il giornalista belga David van Reybrouck nel suo “Revolusi” da poco uscito in Italia, gioca un ruolo chiave. Di spinta e, in alcuni casi, anche di modello.

Il modello per Sukarno si sostanzia del “Sukarnoism”, la sua ideologia che si basa sul NaSaKom ossia un misto di Nazionalismo, Religione, Comunismo. E tutto ciò si realizza nel concetto di Demokrasi Terpinpin, ossia democrazia guidata, una sorta di regime personale. E’ una miscela bizzarra in un Paese dove comunque si erano tenute elezioni multipartitiche. C’è tutto nel Sukarnoism: la democrazia occidentale, l’islam, il nazionalismo, l’impostazione autoritaria, una spinta allo sviluppo sociale. Oltre al contribuo della tradizione locale. Si, perché nella democrazia guidata Sukarno vede anche la necessità di un consenso lato che si deve sostanziare del gotong-royong, l’aiuto reciproco alla base del concetto di comunità dei villaggi contadini dove sulle decisioni importanti la maggioranza non basta, va raggiunta l’unanimità. C’è altro. Già nel 1945, al momento di varare una nuova Costituzione, si fa riferimento a una sorta di decalogo di principi totalmente indonesiano e ispirato da Sukarno: sono i cinque pilastri Pancasila: Fede in Dio; Giustizia e civiltà umana; Unità dell'Indonesia; Democrazia guidata dalla saggezza di consultazioni rappresentative; Giustizia sociale. Nati nell’ideologia di un movimento nazionalista sostanzialmente laico, i Pancasila garantiscono l’islam ma anche la libertà religiosa e però vietano l’ateismo. Viene però bloccata la richiesta di alcuni gruppi islamici di introdurre nella Costituzione l’imposizione della Sharia.

Si può pensare ciò che si vuole di Sukarno: rivoluzionario, demagogo, centralizzatore, populista. Ma la sua impronta resta ancora oggi, con una forma di adorazione che non è semplice culto della personalità. Sukarno fece dell’Indonesia coloniale un paese indipendente e diede a Giacarta una statura internazionale. Agli indonesiani l’orgoglio di essere nazione.

Il Paese è comunque attraversato da turbolenze e il bastone del comando passa di mano nel 1965. Le premesse sono un tentativo di colpo di mano militare capeggiato dal colonello Untung a capo del Movimento 30 settembre che vorrebbe opporsi alla supposta cospirazione di un gruppo di generali anti sukarniani. E infatti la mossa di Untung si accompagna all’assassinio di sei generali ritenuti golpisti. Il colonnello, dalla Radio nazionale occupata, annuncia il suo programma rivoluzionario che durerà lo spazio di un mattino. Ma Sukarno sa del colonnello Untung? E quali sono i rapporti di quel giovane militare col Partito comunista indonesiano, all’epoca uno dei maggiori al mondo dopo Russia e Cina?

Scatta la reazione e il 2 ottobre l’insurrezione militare è già sotto controllo. E’ un giovane generale a riprendere in mano la situazione: si chiama Suharto. Suharto dà il via a un’operazione di pulizia di tutte le forze rivoluzionarie e comuniste e di tutti i supposti sostenitori. E’ un massacro il cui bilancio è ancora incerto ma si trattò di un eccidio di almeno 500mila persone giustiziate sommariamente. Probabilmente molte di più. Esautorato Sukarno, Suharto diventa presidente nel 1967 e il 1 ottobre viene dichiarato Giorno della Santità per celebrare il trionfo dei Pancasila su tutte le ideologie, in particolare su "comunismo e marxismo-leninismo". Paradossalmente sono ancora i pilastri di Sukarno la spina dorsale del Paese ed sono ancora i Pancasila la base del Nuovo ordine imposto da Suharto, con un’interpretazione che rafforza il suo regime personale.

L’Orde Baru – Nuovo Ordine appunto – tollera solo tre partiti, il più forte dei quali – il Golkar – è nelle mani di Suharto e di un esercito di cui resta a capo che svolge una dwifungsi – una doppia funzione: la difesa della nazione certo, ma anche attività che riguardano la sfera civile. L’esercito interviene dunque anche con funzioni di polizia, è attivo nel settore economico, controlla il consenso. La dittatura di Suharto, appoggiata come garanzia anticomunista dagli Stati Uniti, durerà oltre trent’anni.

Suharto non è un ideologo particolarmente dotato. Si fa consigliare dal suo indovino personale, si affida ai suoi generali per controllare l’ordine pubblico e crea al contempo una sorta di meccanismo economico che si basa soprattutto sui favori agli amici personali nonché alla rete di parentela della sua stessa famiglia. E’ un liberista dirigista che crede nel ruolo dello Stato, un dittatore populista ma intollerante, un saldo difensore dell’anticomunismo e dell’amicizia con Washington. Ma nel 1975 commette uno dei suoi maggiori errori: invade la parte orientale dell’isola di Timor all’estrema periferia dell’arcipelago. A Timor Est infatti, ex colonia portoghese liberata da Lisbona dopo al Rivoluzione dei garofani del 1974, i timoresi rivendicano l’indipendenza. L’azione militare indonesiana, che si macchia di crimini e stragi, segna le prime crepe di un regime sempre meno tollerato a livello internazionale anche se il pugno di ferro – in tutto l’arcipelago, Timor Est compresa – garantirà a Suharto altri vent’anni di potere.

Sono vent’anni di regime sempre più pressato dai movimenti giovanili e studenteschi e da una serie di focolai autonomisti in diverse aree dell’arcipelago, spinte centrifughe che minano l’unità nazionale di uno Stato ipercentralizzato e che ha concentrato da sempre il suo potere a Giava, l’isola più ricca e popolosa. I nodi vengono al pettine nel 1998 proprio a causa del fatto che Suharto intacca la sua politica populista di sussidi. Viene messo da parte dai suoi stessi generali. Tra loro c’è anche suo genero, Prabowo Subianto, un uomo in divisa che ha fatto carriera nella repressione a Timor Est e nella Papua. Lo ritroveremo a Capo dello Stato Indonesiano un quarto di secolo dopo: nel 2024.

Messo da parte Suharto grazie alle proteste del 1998 e al voltafaccia dei suoi sodali in divisa, per l’Indonesia si apre una nuova stagione: difficile, confusa, attraversata da spinte centrifughe come sempre e da una ripresa dell’ortodossia islamica che, in alcuni casi, alimenta anche episodi stragisti come le bombe a Bali nel 2002 che uccidono oltre 200 persone. Il sukarnismo torna alla ribalta, impersonato da sua figlia Megawati Sukarnoputri, ma l’islam diventa una bandiera importante. Laici e religiosi, cristiani o musulmani, tutti si richiamano pur sempre ai Pancasila seppur con toni diversi. In Indonesia tra l’altro ci sono diverse organizzazioni islamiche e con sfumature tutt’altro che sottili. La loro forza può far vincere un’elezione, cambiare una legge, imporre un diktat. Le due maggiori sono la Nahdlatul Ulama e la Muhammadiya.

La prima è costituita da un islam sincretico e tollerante, che guarda al Corano ma anche all’adat, la tradizione locale consuetudinaria. La Muhammadiya è invece un movimento purista e ortodosso ma aperto alle innovazioni e attento ai cambiamenti sociali. Catalogarli non è facile. Si sarebbe tentati di dire che il primo è progressista e il secondo conservatore. Che uno sta a sinistra e l’altro a destra. Ma sono categorie che facilitano lo sguardo occidentale ma non disegnano una realtà molto più complessa. L’Indonesia è un Paese in cerca di soluzioni, soprattutto dopo la trentennale dittatura di Suharto.

Forte di milioni di adepti – oggi ne conta quasi cento - la Nahdlatul Ulama, che si allea col Partito democratico di lotta di Megawati, la spunta e candida come presidente Abdurrahman Wahid, un uomo colto, moderato, progressista che diventa Capo di stato nel 1999 sino al 2001. Poi fino al 2004 governerà Megawati. Sono tempi difficile per una democrazia giovane ma che ha già messo a segno rapidamente alcuni risultati: nel 2002 Timor Est diventa indipendente in seguito a un referendum mentre con l’arrivo alla presidenza di Susilo Bambang Yudhoyono, nel 2005. si negozia la pace con la guerriglia a Sumatra. Yudhoyono è un ex generale ma resta per due mandati. Nonostante un passato in divisa consolida la democrazia indonesiana: multipartitica, tollerante, disposta a negoziare. Yudhoyono non è però un innovatore ma semmai un consolidatore. Riesce a far cambiare comunque la percezione di un Paese che, durante Wahid e Megawati, è stato segnato da caos e confusione istituzionale, balletti di alleanze, scontri al vertice e una crisi violenta scoppiata tra il 1999 e il 2002 tra cristiani e musulmani nelle Molucche e nell’isola di Sulawesi. La svolta è del 2014 con l’arrivo alla presidenza di Joko Widodo, detto Jokowi.

Fino a Jokowi, Pancasila, islam e retaggio militare si sono fusi in un amalgama ideologico difficile da districare. L’Indonesia conosce un periodo di forte revivalsimo islamico ma vede anche i segnali di una pace sociale diffusa: segnali che si affacciano timidamente in un arcipelago disomogeneo dove l’unità dello Stato centrale fatica a tenere assieme la complessa realtà lasciata in eredità da tre secoli di dominio coloniale. Le diseguaglianze sociali restano forti e se l’economia mostra segni di ripresa, non sono ancora sufficienti. Jokowi impone un cambio di marcia e guadagna un consenso che, negli anni, non è mai diminuito.

Tanto per cominciare Jokowi è molto giovane rispetto alla media dei suoi predecessori ed è inoltre il primo leader e presidente indonesiano che non viene dall’elite. La sua è una famiglia di agiati artigiani del mobile il cui laboratorio è la prima università del futuro capo di Stato. Jokowi aderisce al partito democratico di Megawati e fa dunque sua, oltre all’ideologia dei Pancasila, la scelta di uno Stato centrale e decisionista in una nazione orgogliosa di essere tale. Ma aggiunge significative innovazioni. Intanto, per una serie di fattori, si va allargando la platea dei consumatori interni, elemento che traina un’economia che Jokowi non vuole più orientata solo all’export di materie prime. Ciò contribuirà ad attutire la crisi globale del 2008-2009. L'Indonesia ha un'economia di mercato in cui il governo svolge un ruolo significativo, inclusa la gestione di prezzi di alcuni beni di base. Jokowi rafforza questo indirizzo accompagnandolo con leggi che impediscono addirittura la vendita diretta di alcune materie prima a meno che non siano lavorate o semilavorate in Indonesia. E nonostante i due anni critici della pandemia Covid-19, la crescita economica dell'Indonesia segna un’accelerazione. Ma non c'è solo l’economia nei piani di Jokowi.

Dal 2009 l’Indonesia ha già iniziato iniziato a migliorare il sistema di protezione sociale finanziandolo col risparmio ottenuto da un lento abbandono della politica dei sussidi su alcuni prodotti base come riso e, soprattutto, idrocarburi. Ma Jokowi introduce una sorta di piccola rivoluzione che, secondo gli entusiasti, ne fa l’operazione numericamente più spettacolare nella storia del welfare dei Paesi del Global South.

Questa rivoluzione inizia il 3 novembre 2014 quando il neo eletto Jokowi lancia il più ambizioso piano di welfare del Paese che si basa essenzialmente su tre programmi nazionali. Si guadagna persino il plauso dell’Economist: «Obama – scriverà il magazine britannico - ci ha messo 472 giorni per trasformare in legge il suo health-care. Joko Widodo ha impiegato solo due settimane per onorare le promesse in tema di sanità e istruzione». Il presidente ha basato la sua azione innovatrice trasformando il risparmio sul budget - ottenuto col graduale taglio dei sussidi – sia in denaro da riconvertire in assistenza, sia in investimenti infrastrutturali in grado di attrarre investimenti. La scommessa si basava su un tasso di crescita annua di almeno il 7% annuo e sulla capacità – che ancora si sta testando – di controllare la riforma con database informatici efficaci.

L’assicurazione sanitaria nazionale è tra le più estese del mondo e prevede comunque che alla presenza dello Stato si affianchino forme private di investimento sulla propria salute. La riforma si associa a un nuovo sistema pensionistico gestito dall’Istituto per la Previdenza Sociale, che ha per scopo l’adesione dei lavoratori a un sistema in passato rivolto solo a dipendenti pubblici e militari.

A inizio 2020 la platea era di circa 12 milioni di lavoratori, solo l’11% di una forza lavoro di poco più di 134 milioni. La previdenza è obbligatoria per le grandi e medie imprese, non per le piccole. A ciò si aggiungono gli informali che sfuggono a qualsiasi formalizzazione del rapporto di lavoro. Eppoi c’è la nuova capitale: Jokowi decide di spostarla da Giacarta nel cuore del Kalimantan, il cuore verde del Paese. Non più solo Giava quindi. Un’altra scommessa.

Disegnare la traiettoria politica di Jokowi non è semplice. Ma il presidente, nell’arco di due mandati, riesce a coniugare il nazionalismo economico e l’apertura ai mercati, il Pancasila con un’ideologia liberista che guarda anche a modelli autoritari – come Singapore – ma edulcorati da un welfare diffuso. Poi c’è la politica estera che Jokowi guida in equilibrio tra i due colossi di Cina e Stati Uniti. Vuole gli investimenti di Pechino ma non vuol perdere l’amicizia di Washington. Un gioco sottile e complesso.

Va intanto segnalato che Jokowi è uno dei fautori della firma che, con altre 14 nazioni, ha siglato a metà novembre 2020, il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un accordo commerciale che include le 10 nazioni dell’Asean e alcuni tra i maggiori Paesi di Asia e Oceania: Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. E’ l’ennesima scommessa di Jokowi che investe molto anche sull’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico di cui l’Indonesia si candida da sempre ad essere tra i protagonisti principali. Per non farsi mancare nulla Jokowi si fa paladino anche della sfida green: il Paese è tra i primi emettitori di gas serra a causa della deforestazione e della sua dipendenza dalle centrali elettriche a carbone. È anche tra i maggiori esportatori mondiale di carbone. Jokowi ha fissato l'obiettivo climatico di raggiungere emissioni nette zero entro il 2060 in parallelo a piani per aumentare le energie rinnovabili. Obiettivo da molti definito ambizioso.

Non tutte le ciambelle però riescono col buco. Durante la presidenza indonesiana del G20, Jokowi tenta la mediazione impossibile tra Mosca e Kiev. Fallisce. Infine, nelle elezioni presidenziali del 2024, cui non può presentarsi per un terzo mandato, sceglie di appoggiare la candidatura di due personaggi quantomeno controversi: l’ex generale Prabowo Subianto e…. suo figlio Gibran. In un colpo solo spiazza chi lo vedeva come il grande riformista democratico. Ripropone con suo figlio una visione dinastica del potere che proprio lui aveva contribuito a cancellare. E infine sceglie come continuatore del suo lavoro un militare che si è macchiato di crimini pesanti durante la dittatura di Suharto. Prabowo Subianto è non solo un uomo di destra che per anni ha rivaleggiato con Jokowi senza mar riuscire a soffiargli la presidenza, ma è anche un uomo che si appoggia ai segmenti più radicali dell’islam indonesiano. Inoltre ha fama di non aver a cuore i rapporti con la Cina. Gli osservatori dicono che, con Prabowo che gli deve il favore e Gibran che è di famiglia, Jokowi si è assicurato la continuità della sua politica. E’ l'ultima sfida di un innovatore pragmatico capace sinora di conciliare il nero col bianco, il rosso col verde disegnando un arcobaleno senza precedenti. Col rischio che questa volta il suo sole possa tramontare.


domenica 7 luglio 2024

L'Afghanistan e le nostre responsabilità




La presidente della Commissione Diritti umani della Camera Laura Boldrini ha reso nota lasua intenzione di presentare un'interrogazione al governo per “chiarire qual è la posizione dell'Italia nei confronti dell'Afghanistan, quali misure intenda intraprendere per sostenere la popolazione stremata e tutelarne i diritti - anche ripristinando aiuti allo sviluppo - e come intenda garantire la protezione internazionale alle afgane e agli afgani in fuga dai Talebani". Lo ha fatto dopo aver incontrato i responsabili della “Rete 26 febbraio” (strage di Cutro ndr) e quelli di 4 associazioni italiane e internazionali: Emergency, Intersos, Unitad Against Inhumanity (Uai) e Afgana. Durante un’audizione parlamentare abbiamo riassunto le condizioni in cui vive un popolo già vessato da leggi discriminatorie e dai postumi di una guerra infinita condotta con l’illusione di mettere le cose a posto e conclusasi con un fallimento. Cui è seguito un assordante silenzio. 

Riparlarne tre anni dopo la fuga del 15 agosto 2021 da Kabul, significa obbedire all’imperativo etico che obbliga un Paese che ha investito nella guerra afgana circa 10 miliardi (di cui il 90% in spesa militare) a non tradire la promessa fatta allora e che suonava più o meno così: “Non dimenticheremo l’Afghanistan”. Ma poi i soldi per l’emergenza si sono assottigliati, quelli per la ricostruzione sono scomparsi e la diplomazia europea – come quella americana - si è limitata a osservare la situazione da Doha, dove anche la nostra ambasciata è stata trasferita quell’estate, benché l’ambasciatore di allora a Kabul, Vittorio Sandalli, avesse ipotizzato che la nostra legazione in Afghanistan potesse rimanere aperta. Battaglia persa con la Farnesina e col governo.  

Ora ci si chiede se si può lasciar morire di fame la popolazione di un Paese solo perché non ne riconosciamo il regime. I numeri lo testimoniano: Emergency e Intersos – presenti sul territorio – ricordano che 23,7 milioni di afgani, oltre metà della popolazione, hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere e che oltre l’80% delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno. I tassi di malnutrizione materno-infantile sono fra i più alti al mondo così come l’incidenza di morti per ordigni esplosivi o da parto, conseguenza di una sanità  fragile con le carenze croniche di un sistema pubblico in cui l’accesso alle cure essenziali è un percorso a ostacoli. Uai ha ricordato il tema  della confisca delle riserve della Banca centrale afgana (Dab) da parte degli Usa e dei suoi  alleati (Italia compresa), col congelamento di 9,5 mld di dollari. Soldi del governo talebano? No, dei cittadini afgani che ora non possono metterli a garanzia per commerciare con l’estero. Tagliata fuori dal sistema bancario internazionale la Dab non è più in grado di svolgere le sue normali attività per garantire il funzionamento dell’economia. Uno scongelamento graduale con monitoraggio internazionale di quei fondi è urgente e necessario per il benessere dell’economia afgana. E non significa riconoscere il regime talebano.

Ma non c’è solo la crisi umanitaria, sanitaria ed economica, la repressione interna e la  discriminazione di genere. La società afgana sconta anche la mancanza di coraggio e creatività politica della diplomazia euro-atlantica. Di fronte all’impasse c’è bisogno di uno scarto: una diplomazia dei piccoli passi, che non sia declamatoria e basata su ultimatum ma che ricerchi l’opzione che più tutela i diritti e i bisogni della popolazione afgana e delle donne. Parlarsi non significa accettare le politiche talebane perché tra inazione e legittimazione esiste un ampio spettro di possibilità. Serve dunque un coinvolgimento attivo che comprenda anche il dialogo coi Talebani. In nome di quei diritti che da vent’anni proclamiamo di voler difendere.

Questo commento è apparso ieri su ilmanifesto accanto al pezzo di Giuliano Battiston

lunedì 1 luglio 2024

Torniamo a parlare dell'Afghanistan (e delle condizioni dei suoi abitanti)



Domani 2 luglio alle ore 11.30 Audizione sull'Afghanistan alla
Commissione permanente diritti umani presieduta da Laura Boldrini.

Parleranno Rossella Miccio (Emergency) Giovanni Visone (Intersos) Antonio Donini (United against Inhumanity) Giuliano Battiston (Afgana). Si può seguire (in diretta o differita) sul sito della Camera



giovedì 20 giugno 2024

Una call per reportage con tema "Uguaglianza" per celebrare la Scuola di giornalismo Basso




la Scuola di giornalismo Lelio Basso compie 20 anni. Un'Open Call per festeggiarlo: la lettera della direttrice Marina Forti


Care e cari
nel 2025 la Scuola di giornalismo Lelio Basso compie 20 anni. Per celebrare questo anniversario stiamo lavorando a un libro che racconti la storia scritta in questi anni in via della Dogana Vecchia, 5. Non solo, crediamo che il risultato più importante del nostro lavoro sia stato aiutare centinaia di persone ad affacciarsi nel mondo del lavoro giornalistico e a consolidare le proprie capacità. Pertanto è a voi, ex studentesse e studenti della Scuola Basso, che chiediamo di scrivere il prossimo capitolo. In particolare, vi chiediamo di realizzare 8 reportage o inchieste originali, sul tema dell'uguaglianza.
Marina Forti
Direttrice della Scuola di giornalismo Lelio Basso
Per tutti i dettagli: scuolagiornalismoleliobasso.it
Per informazioni e invio candidature: info@scuolagiornalismoleliobasso.it

vedi anche Facebook

domenica 5 maggio 2024

L'Indonesia e un ricordo di Guido Corradi

 Incontri su paesi d'Asia. Un viaggio “intorno” all'Indonesia
 15 Maggio 2024  ore 9.30 Mudec Milano


E' il titolo scelto da Italia Asia per una giornata di incontro sul grande arcipelago. Ma la giornata è dedicata a Guido Corradi, docente di geografia del turismo e grande divulgatore della realtà indonesiana. Per partecipare bisogna iscriversi qui. La giornata inizierà proprio con un ricordo del nostro amato Guido che per molti anni ha insegnato cultura indonesiana all'Ismeo-Isiao. 

Il programma


 09.30-10.00: Registrazione dei partecipanti 
Modera Susanna Marino 
10.00-10.10: Parole di benvenuto e introduzione: Susanna Marino-Presidente IA
 10.10-10.20: Parole di benvenuto e introduzione: MUDEC
 10.20-10.30: Introduzione e Ricordo di Guido Corradi Monica Scaccabarozzi 
10.30-11.15 La sfida indonesiana Emanuele Giordana 
11.15 -11.25 Filmato sulla lingua indonesiana Guido Corradi 
 11.25 -11.40 Discussione 
11.40-12.25: La vita nelle case lunghe Giorgio Azzaroli 
12.25-13.00: La scultura in terracotta della civiltà Majapahit Bruno Gentili 
13.00-14.30 - Intervallo per pranzo 
14.30-15.15: Il Kris: lo spirito di una tradizione Vanna Scolari, Marco Briccola Asti 
15.15-16.00: Il “Teatro delle ombre” a Giava Bruno Gentili 
16.00-17.00: Teatro e maschere dall’isola degli Dei Enrico Masseroli 17.00:Discussione e Conclusioni della giornata



Qui a fianco, l'ultimo lavoro a 4 mani con Guido sull'Indonesia

venerdì 22 marzo 2024

Intervista a Xanana Gusmão. Un viaggio a Timor Est



Alla fine di un lungo viaggio in Indonesia orientale siamo arrivati a Timor Est, un luogo che avevo sempre desiderato visitare. Ne ho scritto per il manifesto (anche se il pezzo sul sito non è stato indicizzato e quindi non si trova) e per Lettera22 (una sorta di "voci della resistenza") ma è la stessa proposta scritta che potete leggere due post prima di questo senza uscire dal blog. Infine ne ho scritto per Mondopoli dove ho affrontato il tema della violenza ancora abbastanza diffusa sull'isola specie nei confronti delle donne (è tra le più alte dell'Asia!). E' stata anche l'occasione di un'intervista video con Xanana Gusmao che vi propongo qui grazie all'aiuto di Vincenzo Caretti (video), mio compagno di viaggio, e di Dario Leani (montaggio). C'è anche un fotoreportage sull'Atlante delle guerre (si parva licet....)

giovedì 21 marzo 2024

Giovani speranze a Sihanoukville


Il mio arrivo a Sihanoukville, per un lavoro che non è l’oggetto di questo post, è coinciso con la discesa negli inferi della via dov’è situato il mio albergo. E’ una stradina di bordelli dove l’età media mi sembra – se lo è – di poco superiore alla maggiore età.

Ci son f
ile di ragazzine apollaiate su pancacci che si fanno le unghie o cuciono un vestito in attesa di clienti. La prostituzione in Cambogia non è una novità, ma qui colpisce l’insieme di sporcizia, rifiuti accumulati e cani randagi che mordono questa perpendicolare di una grande arteria di una “città cinese” dove l’elemento khmer è piuttosto defilato. Scritte cinesi, negozi cinesi, casinò cinesi, bordelli cinesi. Mi ha assalito un certo malessere che sa di impotenza. Così che mi è sembrato un raggio di sole in questo inferno a cielo aperto (la città ha una cattiva fama criminale non certo imputabile solo ai cinesi), l’incontro con Jen Hoggett, una giovane donna del Regno Unito che vive qua da diversi anni e che lavora per una piccola Ong britannica che si chiama Goodwill Cambodia. Che gestisce due centri scolastici per bambini dai due ai 14 anni.


Non penso, come certo anche Jen,  che una piccola scuola di quartiere possa salvare il mondo,né fare uscire la Cambogia dall’abisso in cui si trovano molti minorenni. Per altro i centri non hanno la minima intenzione di sostituirsi al sistema della scuola pubblica. Semmai integrarlo, offrendo un servizio di dopo scuola e refettorio a famiglie che lavorano e che altrimenti lascerebbero la prole in strada. Ma il piccolo centro di Sihanoukville  mi è rimasto dentro.

Mentre siamo d’accordo con Jen che domani andrò a vedere anche l’altra scuola (che ha in parte ereditato i pargoli di Shine Cambodia, una Ong che ha dovuto chiudere i battenti per mancanza di denaro) penso alle difficoltà che incontra una piccola associazione che dipende dal buon cuore di qualche britannico. Così che c’è una lotta per la sopravvivenza, non solo per i cambogiani poveri ma anche per chi cerca di aiutarli.

Per una volta ho lasciato da parte il cinismo che contraddistingue il nostro lavoro. Altrimenti passeremmo il tempo a piangere sulle miserie del mondo e a maledire la nostra impotenza. E ho scelto di dedicare parte delle mie giornate qui se non altro a vedere le facce di questi ragazzini (sono circa 150) e di questi maestri/e cambogiani che fanno parte dello staff di Godwill Cambodia (9 persone). Mi hanno accolto con grandi sorrisi e un saluto educato d’altro tempi che posto qui sotto. Giovani volti pieni di speranza che hanno fatto sorridere anche me. E ricordato, fuor di retorica, che la speranza è davvero l’ultima a morire. 

Anche nell’inferno di Sihanoukville.




Questa qui sotto invece è la scuola che era in capo a un'altra Ong australiana, Shine Cambodia, che - come dicevamo - ha chiuso i battenti e ora Goodwill se ne fa carico. Con fatica. "Bastano 1000 dollari al mese per pagare uno stipendio dignitoso a due insegnati e il cibo, ma - dice Jen - sono comunque tanti per noi. Stringiamo i denti ma abbiamo bisogno di una mano". Meritatissima.


(mi scuso per la formattazione del testo ma da che blogger.com lo ha cambiata è diventato tutto complicato)