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sabato 7 febbraio 2009

SOPRAVVISSUTI TRA CHIACCHIERE E BIRRETTE

Coquilles Saint Jacques a Kabul? Ma certo che le potete gustare. A parte la fine del conflitto, qualcosa che tutti sembrano cercare ma che nessuno sembra veramente voler trovare, tutto il resto è a disposizione in questa città, tranne il sambal oelek, una salsa di peperoncino indonesiana di cui sono ghiotto. Anche dunque un menù raffinato “fronscese” se siete di quegli expat (espatriati) impenitenti che non riescono a stare troppo lontani dai sapori di casa (vi è mai capitato che, appena arrivati finalmente nel luogo esotico dei vostri sogni, il gentilissmo ospite cui non potete dir di no vi inviti immediatamente nel classico “O sole mio” a mangiar la carbonara?).
La sera, la scelta non è esagerata ma neppure troppo contenuta. I ristoranti non mancano e si dividono in due categorie: quelli per farvi sentire a casa e quelli per farvi dimenticare cosa è oggi l'Afghanistan, lasciandovi immaginare cos'era o com'era ai tempi di Amanullah Khan o durante le tre guerre anglo-afgane. Ma anche questo è oggi l'Afghanistan: un sogno ad occhi aperti piluccando cibo. Il mio locale preferito è il “Sufi”: ambiente classico e di molto gusto, afgano d'antan. Si mangia molto bene e accovacciati come si usa in questa fetta di mondo. Si può bere vino e i prezzi sono contenuti. L'atmosfera è calda e accogliente e non avete esattamente l'idea di vivere dentro una bolla d'aria fabbricata ad arte per voi. Siete gente normale che va di ganasce anche se, ma questo vale da Roma a Lima passando per Giacarta, alla fine il vostro conto sarà l'equivalente di 10-12 giorni del salario di un bracciante agricolo. Solo due però se coltiva oppio.

Quello che detesto si chiama invece “Boccaccio”. Niente da dire sul locale (il mio amico Raffaele ci va perché può bere la Sambuca “con la mosca”), aggraziato e con una discreta offerta culinaria, pulito e lindo e così poco afgano che persino le cameriere (cioè l'impossibile in questo paese) sono esse stesse expat. Tanto che quando viene il mio turno di essere servito, alla richiesta di una birra, mi fanno sempre osservare che agli afgani non è consentito bere in questo locale. E per farlo devo esibire il passaporto come ai posti di blocco (esagero, basta solo dirlo e si fidano). Al Boccaccio siete così lontani dall'Afghanistan che finalmente siete tornati a casa: avrete da ridire sulla consistenza della pizza e sulla cottura della pasta ma, via, a Roma può capitare di peggio. E dunque se desiderate essere, anche a tavola, nella sala di rianimazione internazionale siete serviti.

Il dopo cena non serve molte scelte. Per vedere i contractor ubriachi gonfiare i loro colli taurini, bisogna andare al "Gandamak" (dal nome di un'antica battaglia anglo-afgana del 1842 da cui si salvò solo il dottor Brydon, l'uomo a cavallo che vedete ritratto), sorta di pub o american bar simpatico verso le 13, quando non c'è nessuno. Se vi piacciono le luci, i soffitti bassi e il sudore, fa per voi. Ma io personalmente preferisco l'"Atmosphere", chiacchiere e birrette, ambiente spazioso e un grande camino centrale. Gestito da francesi con alterne fortune, vessato dagli allerta sulla sicurezza, l'Atmosphere è un luogo onesto. Sapete di essere nella nicchia e nel piccolo ghetto riservato a chi può spendere 12 dollari per una bionda e un blended on the rocks. Ma all'Atmosphere il ghetto/nicchia esiste solo per questione di censo, come ovunque nel mondo. E non è difficile trovarci qualche locale e non solo dietro il bancone. O qualche afgano nato nella bella Europa e poi tornato qui magari di recente a fare affari.
Buona parte dei suoi avventori lavora per Ong, ambasciate, università o in quel bizzarro mondo del lavoro più o meno inevitabilmente collegato con la guerra, o con le esigenze di una presenza internazionale quantitativamente importante. Americani pochissimi. Un angolo di Vecchia Europa che vi fa sentire , se non esattamente a Parigi, da qualche parte nel Vecchio continente. Non di meno, fuori dal locale, un ampio quadrato dalle pareti rosse che virano al bordeaux e una scelta di liquori e anche vini accettabile, c'è un bellissimo giardino afgano e persino una piscina. E il ristorante è discreto, in un'ala separata. La sicurezza, obbligatoria, si dipana attraverso due stanzette eminentemente afgane, sufficientemente sporche e malconce da farvi sentire a casa. Se vi piace stare a Kabul, intendo. Ma se non vi fidate di quel che dico date un'occhiata alla lunga lista di recensioni che il blog del ristorante allega a una lunga galleria fotografica, al menù e a una simpatica pagina di Acceuil.

Today Photo Credit

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