GIOVEDI SERA A KABUL (dal "Diario della settimana" di ottobre)
Ripubblico questo articolo su La febbre del sabato sera della comunità "expat" nella capitale afgana perché possiate gustravi le fotografie di Romano Martinis
Joseph, chiamiamolo così, ha passato davvero un brutto quarto d'ora. E' stato sequestrato durante una missione ma la prigionia è durata poco. Probabilmente nella sua stanza, in qualche appartamento blindato di Sharenaw, le sue valige sono già pronte e sul comodino c'è un volo per Dubai da cui proseguire per Lione o Parigi. Ma prima di partire bisogna salutare gli amici e magari in un luogo che è già un po' Parigi. Dimenticare l'Afghanistan, insomma. Subito, magari prima ancora di aver varcato la soglia del Kabul International Airport, un agglomerato di blocchi di cemento, sacchetti di sabbia e giubbotti antiproiettile che solo da qualche mese l'alta ingegneria giapponese ha ritrasformato, almeno in parte, in quello che adesso appare come un normale scalo internazionale.
Jospeh è passato all'Atmosphère, “Atmò” se sei del giro, ambiente spazioso e grande camino centrale. Gestito da francesi con alterne fortune, vessato dagli allerta sulla sicurezza, l'Atmosphère è un luogo onesto, un po' Parigi un po' Kabul. Grandi tappeti etnici alle pareti e 12 dollari per una birra che, in questo locale, potete miscelare alla Sprite fingendo che si tratti di un panaché, la bionda con gazzosa che si beve a Boul Saint Mich quando l'estate incalza. Anche il blended costa 12 al bicchiere e la scelta dei vini non è male in questo ghetto riservato agli “expat”, gli espatriati occidentali – piccolo ma potente esercito di occupazione civile – che sono arrivati con la guerra a vivere in questa città sulla linea del fronte. Quattro o cinquemila persone forse. Con passaporto europeo, statunitense, canadese. Pelle bianca e una gran voglia di bere quando arriva il weekend che, in questo angolo di mondo, si festeggia di venerdì. E' la febbre del giovedì sera, riedizione del sabato che contraddistingue l'Europa dalle radici cristiane e il calendario delle bevute in tutto il mondo occidentale. Dove stasera? All'Atmò, evidemment. Con qualche cautela: “I talebani – dice Jerome, un umanitario francese – sono dentro Kabul ed è da almeno un anno che le restrizioni ai nostri movimenti si sono fatte più dure. Del resto nel 2001 c'erano 2mila Ong a Kabul ma ora sono ridotte di molto. Quelle francesi erano 20, ora sono 10”. Raffaele, che ha lavorato sia nella cooperazione governativa sia in quella non, è lapidario: “I bei tempi del brunch al Kabul Coffee House sono finiti così come i summer party che davano gli umanitari di Acted”. Sconsolato, ma nemmeno troppo, ordina un'altra birretta. Anche quelli dell'Onu hanno dato un taglio alle festicciole, dirottate per lo più nelle residenze private. Rigidamente di giovedi. Dopo l'Atmò magari stasera ci si va.
Fare gli expat a Kabul significa due cose, anzi tre. Tanti soldi e una vita da reclusi. La terza? Domandarsi perché siamo qui. Una questione ontologica che non tutti si pongono ma che assilla questi giovani militanti dell'umanitario (che sono quelli che guadagnano di meno), i funzionari delle Nazioni unite, i diplomatici che smettono per un paio d'ore l'abito da cerimonia e i rari uomini d'affari in cerca di compagnia. L'Atmò, come il Gandamak, il ristorante Boccaccio (il più gettonato anche dai ricchi afgani) o il Sufi (il più elegante e gastronomicamente soddisfacente) sono l'ultimo rifugio per fingere di essere degli uomini liberi. In una città dove si vive blindati, ossessionati da sequestri, razzi, kamikaze o dagli allerta che la vostra ambasciata vi invia ogni ora sul telefonino (“rischio attentati sulla Massoud Road, prestare attenzione”), sono i luoghi della libertà virtuale. Dove noi occidentali, portatori della sacra fiaccola della libertà in queste lande oscurantiste e sottosviluppate, gustiamo il sapore di casa e soprattutto la trasgressione di poter comandare un birra o un piccolo bordeaux. Persino Coquilles Saint-Jacques nel ristorante a fianco. Il pranzo di addio Nadine, olandese di padre iracheno, lo c elebra proprio all'Atmò: “Quando sono venuta qui ci credevo davvero che avremmo cambiato le cose. Ma adesso...tutto mi sembra così difficile”. Lavora per Unama la missione Onu a Kabul. Ha chiesto un trasferimento.
Fuori dal locale, un ampio quadrato dalle pareti rosse che virano al bordeaux e una scelta di liquori accettabile, c'è un bellissimo giardino afgano e persino una piscina. La sicurezza, obbligatoria, si dipana attraverso due stanzette eminentemente afgane, sufficientemente sporche e malconce da ricordarvi dove siete. L'Atmosphère è ben frequentato. Anche da qualche afgano nato nella bella Europa e poi tornato qui, magari di recente, a fare affari.
Abdul ad esempio, rientrato dalla Germania, fa affari con la nostra ossessione per la sicurezza: “Costruisco macchina blindate”. Ride e ingolla un gin and tonic. Buona parte degli avventori sono di Ong, ambasciate, università o la sfangano in quel bizzarro mondo del lavoro più o meno inevitabilmente collegato con la guerra che di opportunità ne offre moltissime. Americani pochissimi. E nessun soldato, al massimo gli 007 dei servizi che orecchiano qualche notizia. Non sono passati di qui i sei militari italiani che l'ennesimo attentato a Kabul ha straziato il 17 ottobre. Tutto si può dire dei militari, ma non che non tengano un basso profilo. Al massimo possono usufruire dei ristorantini che una compagnia privata gestisce nelle basi: “A Camp Invicta – la caserma tricolore di Kabul - fanno un'ottima pizza”, si consola un capitano italiano. E se va al Quartier generale di Isaf ci sono anche i tacos messicani. Ma per loro posti come l'Atmò o il Gandamak sono vietati.
E' roba da civili quest'angolo di Vecchia Europa dove Jason, un britannico, omosessuale, che vende servizi di logistica alla Nato, si è appena addormentato sul divano emanando effluvi stomachevoli. Il suo compgano lo strattona: “Dai Jasaon, datti un contegno che ora si va”. Ma qui si può essere sia ubriachi, sia gay: è un'isola di tolleranza che, oliata da qualche bustarella, fa chiudere un occhio alle autorità e viene sopportata anche dai più intransigenti islamisti locali. Meglio che questa casta, resa ancor più casta dalle misure di sicurezza che le impediscono di fatto qualsiasi contatto con gli afgani, se la suoni e se la canti in un paio di locali. Senza dar troppo nell'occhio. Non sempre fila liscia però. Il Samarcanda per esempio, gestore afgano-americano e capitali turchi, è durato pochissimo. Le autorità l'hanno chiuso sequestrando gli alcolici e ponendo fino, almeno per un po', al sogno di Nadir, il suo giovane gestore con accento della California: “Ci vorrà un po' di tempo ma sono sicuro che Samarcanda decollerà”, ci aveva detto due giorni prima della serrata. Il locale, riedizione di uno più antico, era semi vuoto. Frequentato da un'umanità prevalentemente esteuropea. E dietro qualche siparietto apparivano talvolta bellezze cinesi con décolleté di vernice. Un paio di biliardi in fondo alla sala principale chiudevano il cerchio. Rigore morale o una vendetta di tangenti contro la lobby turca?
Sudori e afrori, colli taurini e muscoli, contractor e donnine allegre sono invece il biglietto da visita del Gandamak, un profluvio di armi alle pareti e poster di antiche battaglie alternate a moderni mitragliatori. Ben esposti a ricordare che si può morire più in fretta che non per il colpo di un vecchio fucile ad avancarica. Di vecchi fucili ad avancarica, appoggiati nella rastrelliera del ristorante al piano terra, ce ne sono parecchi al Gandamak, luogo tra i preferiti degli expat di Kabul, soprattutto di quelli che fanno dell'uso delle armi il proprio mestiere. E fa una certa pena quel vecchio ottuagenario afgano che, nella reception del ristorante, vende finti souvenir del Nuristan alle vesciche vaganti che, gonfie di birra, si alternano al gabinetto. In un angolo, un altro commerciante sta pregando mentre l'orologio alla parete di questo locale molto colonial-british, con un'eleganza di un qualche fascino (a mezzogiorno), segna le due. Di notte. Ma il ritrovo per eccellenza è nel seminterrato: un locale stretto e lungo con pochi anfratti per vedere video o fare quattro chiacchiere. I soffitti sono bassi e il fumo aleggia sovrano. Colore dominante: rosso (taurino). La frequentazione è varia: dai muscolosi contractor rapati, con cui proprio non vorreste litigare, ai più rari umanitari di qualche Ong. Ma anche diplomatici in libera uscita, consulenti e consiglieri, uomini d'affari, ragazze stagionate in cerca di un rimorchio davvero facile in una città dove il rapporto maschi/femmine expat può arrivare a dieci a uno. L'atmosfera è pesante e la scena è tenuta soprattutto da questi giovinastri in tipica tenuta da mercenario: mimetiche e t-shirt nere, scarponi da militare, muscoli che il sudore fa brillare. Sanno di essere i padroni. E non solo qui, ma in un paese dove rappresentano – dopo la Nato, quello americano e quello nazionale - il quarto esercito in servizio.
Il Gandamk è frequentato anche dai giornalisti e quelli embedded, se in libera uscita controllata, li portano qui direttamente dall'ambasciata americana per un tour in piena libertà nella Kabul by night. C'è anche una Guest House a 124 dollari la singola e un giardino molto carino, meta notturna soprattutto estiva. Gli expat che ci abitano, specie se di professione reporter, fanno un affare doppio: c'è tutta la fauna che serve per carpire qualche ghiotta informazione - specie dopo la una - il luogo è piacevole, centrale, protetto e si può mangiare, per chi non ne può fare a meno, l'immancabile hamburger.
Il giro è finito, si torna a casa. Niente taxi per carità: c'è sempre una macchina con l'autista per riportare a casa, attraversando inevitabilmente il mondo reale, chi trasferisce il proprio corpo dalla libertà virtuale di un locale a quella blindata della propria abitazione. E all'autista chi ci pensa? Lui sta fuori ad aspettare il prossimo razzo. E ha un pregio. E' l'unico vero contatto col mondo afgano.
Il giorno dopo c'è un pranzo al Serena, l'hotel degli incontri ufficiali. C'è un ricco buffet, giacca e cravatta d'ordinanza e una babele linguistica dove trionfa l'inglese. E c'è persino un afgano. Anzi due. Una è quella parlamentare che va per la maggiore. L'altro è il cameriere. Ma qui non si servono alcolici, almeno all'aperto. Per prendersi questa libertà c'è il Gamdamak. O l'Atmò. La febbre del giovedì sera a Kabul.
(nell'ultima immagine: R. Martinis ed E. Giordana in fuga dopo la pubblicazione dell'articolo. Islamisti o violazione della privacy?)
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