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domenica 29 novembre 2009

LA BOMBA DI BAGRAM

La denuncia sul Washington Post: come ad Abu Ghraib, nudi, picchiati, umiliati. La storia di due minorenni afgani in piena era Obama


Non è lo scoppio
che ieri mattina deflagra a Wazir Akbar Khan, quartiere centrale della capitale, la vera bomba della giornata. Non è lo scoppio, che non fa vittime e forse non è nemmeno un attentato, l'ennesima esplosione che travolge la guerra afgana e i suoi combattenti. La bomba è un articolo che campeggia in prima pagina sul Washington Post e che riferisce del racconto, allucinante e allucinato, di due minorenni al Centro giovanile di riabilitazione di Kabul, una struttura dove, dopo il carcere militare o civile (già di per sé un aberrazione per un minore) si decide del loro futuro.

I due giovani, Issa Mohammad, di 17 anni e Abdul Rashid di 16, hanno raccontato di schiaffi, percosse, umiliazioni e privazioni del sonno in puro stile Abu Ghraib. Ma questa volta sotto accusa è ancora la base Usa di Bagram e, per dirla tutta, le “Forze speciali” americani che gestirebbero, dentro il carcere annesso alla base, un altra galera, altrettanto speciale e riservata a metodi spicci e poco ortodossi, vietati – spiega bene il giornale americano – dal codice di condotta delle Forze armate, anche in regime di guerra. Evidenziando quindi che i metodi dell'epoca Bush non sono finiti nemmeno con l'era Obama.

“E' stato il periodo più brutto della mia vita, sarebbe stato meglio uccidermi...”, ha raccontato Rashid che non ha esitato a definire il trattamento peggiore di quello riservato a un animale. Arrestato nel distretto di Sabari (Khost) in primavera dopo un raid americano, Rashid, un falegname, viene trasferito a Bagram: è li che viene fotografato nudo, toccato a più riperse e umiliato a parole. Ma poi gli schiaffi diventano sberle e botte. Rashid vive in una piccola cella grande come il suo corpo steso, nutrito con cibo che gli viene gettato in contenitori di plastica. Ma quando cerca di dormire, le guardie fanno frastuono per impedirglielo. Un tormento che si somma al freddo, rigidissimo negli inverni afgani. Gli interrogatori sono a capo coperto ma Rashid non ha nulla da dire il che fa imbestialire i suoi torturatori. Che fanno di peggio: lo obbligano a guardare materiale pornografico mentre gli mostrano, per associazione, una foto di sua madre. “Non facevo- dice – che piangere”.

Mohammad invece, un contadino del distretto di Arghandab nella provincia di Kandahar, viene arrestato in marzo. Sempre durante un raid americano. Dopo due settimane in isolamento finisce nel “black hole” di Bagram: “...gli interrogatori duravano ore – ha raccontato – durante le quali mi urlavano addosso, mi battevano e mi prendevano a schiaffi dicendomi che dovevo dire loro la verità...”.
Un portavoce del dipartimento della Difesa interpellato dal giornale, Mark Wright, ha affermato che i militari non rispondono alle accuse di abusi a singoli detenuti, ha tuttavia sottolineato che tutti i prigionieri vengono trattati in maniera umana...e nel rispetto della Convenzione di Ginevra e della legge americana. Cosa che nessuno può controllare.

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