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domenica 13 novembre 2011

SE ABBIAM PERSO LA TURCHIA

Bisogna andare a Balat per incontrare l’islam ortodosso turco che, ironia della sorte, ha messo radici nel vecchio quartiere ebraico. E’ un’area più povera di altre, dove le donne velate si vedono più che altrove. Ma fa tutt’altro effetto fa la grande Fatih Camii (“moschea del conquistatore” voluta da Maometto II che, dieci anni dopo la vittoria su Costantinopoli nel 1453, la volle celebrare sulle rovine della chiesa bizantina dei Santi Apostoli).

Questo complesso, che ospita diciotto scuole coraniche e che dovrebbe essere il centro culturale degli islamisti turchi, sembra un normalissimo tempio, anche piuttosto poco frequentato. All’ora della preghiera, molti vecchie e poche barbe lunghe. E nessuno caccia gli infedeli che bighellonano nel luogo sacro. Atmosfera rituale e, appena fuori, la vita normale di una metropoli tentacolare che trent’anni fa era Asia e oggi assomiglia incredibilmente all’Europa. Anche se l’Europa, la Turchia, proprio non la vuole.

Se c’è un pericolo islamico, in questa città di 14 milioni di abitanti, è difficile vederlo (Istanbul è certo la punta avanzata ma conta pur sempre un quinto dei turchi). Uskudar, la parte asiatica, che era il luogo della tradizione – radicata nelle campagne ma bypassata largamente dal laicismo kemalista nelle città – è oggi una fila di palazzi popolari che ne fanno un’altra estesissima metropoli con l’aria moderna e grigia di tutte le periferie (non quelle del “terzo mondo”, quelle piuttosto del “primo”). E il centro della città, nella parte europea, assomiglia più a Vienna o a Barcellone che all’Istanbul “orientalista” che poteva affascinare qualche decennio fa. Quel fascino anzi, sembra irrimediabilmente perduto, per via di una modernità invasiva che ha ridisegnato i siti “orientali” per eccellenza, come la zona di Sultan Hamet. Rimane forse qualcosa di quell’aria sul Bosforo, dove si allineano, in questa stagione, i pescatori. Ma appena oltre il ponte di Galata, nel quartiere di Tophane, trionfa il grande investimento della Biennale, che ha trasformato dei vecchi magazzini in un luogo dove la modernità è anche ricerca e l’intenzione è quella di stare al passo con le grandi capitali dove si studia l’innovazione anche nell’arte. A Taksim , il quartiere più europeo da sempre, la ricomposizione urbanistica ha trasferito sempre più l’immaginario verso Ovest. E nelle migliaia di taverne e ristoranti, si consumano birra e raki (che Erdogan cercò di rendere imbevibile aumentandone la tassazione). Si vedono più minigonne che veli. Le librerie pompano Pamuk e Shafak.

Quel poco che può capire lo straniero che arriva in questa città con le domande classiche (Paese asiatico o europeo? Laico o con una svolta integralista? Chi ha il merito di questo sviluppo persino ordinato?) è che la Turchia è molto di più che un interrogativo che aspetta risposte. La sensazione che l’abbiamo “persa” (da leggere il bel libro di Marco Ansaldo) corre lungo la schiena. Questo Paese che da un secolo guardava a Ovest, adesso forse, dopo tante porte sbattute in faccia, sta guardando altrove. Un’occasione perduta.
Per noi più che per la Turchia.

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