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martedì 5 luglio 2016

Se il terrorista è di buona famiglia

Se qualcuno è rimasto spiazzato dall’appartenenza “castale” del giovane commando di Dacca, e sostiene dunque che l’equazione povertà, ingiustizia, terrorismo non funziona, si potrebbe rispondere che la cosa non fa differenza. I motivi per cui si aderisce a Daesh sono diversi e vanno dall’ideologia più radicale alla necessità di avere uno stipendio a fors’anche un malriposto desiderio di avventura eroica che ha qualcosa di perversamente romantico. Ma in un caso, nell’altro o nell’altro ancora, l’equazione povertà, ingiustizia continua a esistere anche se si è studiato a Oxford. Se l’equazione è chiara per chi è in stato di necessità (gli stipendiati di Daesh o Al Qaeda, i martiri a pagamento della cui morte beneficia la famiglia), nel caso del giovane rampollo benestante c’è comunque un’adesione ideologica che affonda le sue radici nella constatazione della povertà o dell’ingiustizia. Non la sua certo. Ma quella appresa anche solo osservando i servi di casa che per due rupie servono il pasto nei quartiri residenziali. Di Dacca o della Mecca. Il terrorismo e, soprattutto la sua brutalità, sono fenomeni complessi, difficili da analizzare ma, benché ingiustificabili, con radici che affondano prepotentemente in un mondo ineguale e dove la violenza è un modello quotidiano: un modello che, nel caso dei terroristi, viene declinato nel modo più brutale. Povertà e ineguaglianza c‘entrano sempre. Cominciare a eradicarle, come si fa con la malaria, sarebbe un passo avanti.

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