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lunedì 10 luglio 2017

La sera andavamo alla Martesana: l'idea e l'incipit di Viaggio all'Eden

Sempre che la cosa sia di un qualche interesse, l'idea del libro Viaggio all'Eden - che si richiama alla prima guida scritta sul volo magico dall'Italia al Nepal negli anni Settanta - ha preso forma a partire da un articolo uscito nell'agosto del 2007 per il manifesto in una serie estiva che si chiamava Rifugi della sinistra e che concordai con Angelo Mastrandrea. Scrissi quelle 100 righe provando il piacere immenso, per una volta, di poter sfuggire alla schiavitù delle notizie e dell'analisi perché ad andare a briglia sciolta era la memoria e, con lei, la scrittura. Incredibilmente, mentre nessuno si era mai filato le mie cronache, il pezzo suscitò un vespaio di reazioni tra le più diverse. Eccone una:

Mi è piaciuto l’articolo di Emanuele Giordana sul numero di giovedi 2 agosto. Ma sulla Martesana definita “fiumiciattolo maleodorante” non sono assolutamente d’accordo. Verde rigoglioso, canne, acqua abbastanza limpida con pesci e ricca vegetazione sommersa, gracidar di rane, gallinelle d’acqua, germani reali... questa è la Martesana, un pezzetto di natura quasi selvatica nei tristi quartieri Nord di Milano. Claudio Longo, 8/8/07 (lettera inviata al manifesto )

Poi, nell'estate 2013, decisi che quell'articolo poteva partorire una piccola serie rievocativa e proposi al giornale dieci puntate. Anche questa volta ci furono un mucchio di reazioni miste. Alcune davvero confortanti. Perché allora non farne un libro? Ripresi alcuni dei pezzi scritti per il Mani e gli feci acquistare dignità di capitolo ma faticavo a trovare un editore. Poi Laterza si è convinto, grazie anche al sostegno di Giovanni Carletti, la persona che poi ha seguito impianto, nuovo indice e nuova stesura. Se siete arrivati fin qui ecco allora il prologo del libro. Sperando ovviamente che poi corriate in libreria...Ce n'è giusto una all'angolo.

L'indice lo trovate qui

                                         

Lord, I was born a ramblin' man,
Tryin' to make a livin' and doin' the best I can.
And when it's time for leavin',
I hope you'll understand,
That I was born a ramblin' man

(The Allman Brothers Band,
Ramblin' Man, Brothers and Sisters, 1973)

Prologo

Quarant'anni prima

Per noi che sognavamo di prendere il Direct Orient dalla Centrale di Milano, l'ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po' torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano dalla stazione, dove pensionati comunisti e giovani fricchettoni pasteggiavano con ossobuco e barbera dell’Oltrepo per 500 lire. A qualche centinaio di metri, gli effluvi della cannabis condivano le serate all'Abanella, un cinema di terza visione – quando le sale, come i treni, avevano una gerarchia di classe - rilevato da un amante del genere sex, drug & rock'n roll e dove, oltre a Il laureato e Woodstock, si proiettava anche Cavalieri selvaggi con Omar Sharif e Jack Palance. Quel grande film sull'Afghanistan di John Michael Frankenheimer, che i critici cinematografici avevano snobbato, alimentava l'epopea del Viaggio all'Eden, come era stata chiamata la prima guida per freak sulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. E non c'era molto altro come viatico letterario.


Sì, anche Allen Ginsberg, allora molto gettonato, era stato in India ma alla fine ci passavamo di mano soprattutto un altro classico dell'epoca, pura operazione furbescamente commerciale ma non priva di seduzione: quel raccontone letterariamente scadente ma altrettanto avvincente di Charles Duchaussois,
junkie francese che aveva fatto il giro del mondo con un ago infilato nel braccio. Il suo Flash. Katmandu il grande viaggio descriveva l'Old Gulhane di Istanbul e raccontava di sordidi buchi del bazar di Bombay per fumatori d'oppio, di santoni, contrabbandieri, guru e ashram dove poter allargare la coscienza a colpi di mantra e di “manali”, l'hascisc nero e profumato delle valli del Nord dell'India. Insomma la partenza si preparava così: amuchina e antibiotici per i più paranoici, pile e lamette da barba per i previdenti, Sulla strada di Kerouac o Siddharta di Hesse per i più raffinati, Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda per gli spiritualisti. Inseguiti dagli anatemi di quelli che «no compagni, non si può andar via e mollare la lotta di classe», ci rodeva – sotto la pergola della Bocciofila Martesana - il tarlo della strada e non ci scalfiva quel refrain di Giorgio Gaber che cantava di una generazione che scappava «in India e in Turchia» fingendo di essere sana. Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul, dove immigrati turchi accaldati di ritorno a casa esibivano i gilet e le coppole d'ordinanza mentre si attraversava la Iugoslavia di Tito fino alla Porta d'Oro aperta sull'Oriente.
La copertina di "Viaggio
all'Eden", la prima mitica
guida al volo magico
(altro titolo dell'epoca)
Traversata la prima frontiera, i ritrovi all'occidentale cui eravamo abituati (dal piccolissimo bar Erika di zona Loreto al mitico Jamaica, già troppo caro all'epoca per le nostre tasche) finivano di colpo. C’era qualche locale a Belgrado dove potevi bere acquavite e un ultimo espresso ma già trionfava il caffè serbo, che in Grecia è caffè greco e in Turchia caffè finalmente turco. E quando ormai avevi passato anche l'ultimo confine alcolico bagnato di Retzina e Demestika ghiacciati, restava la birra turca ma si affacciava anche un primo stupore per quello splendido tè servito in bicchieri stretti stretti con la pancia sporgente e l'orlo striato da una collanina d'oro, trascinati su un vassoio rotondo di metallo martellato ai tavolini all'aperto di Sultan Ahmet. Sempre affannati a cercare il posto più economico – per mangiare e dormire, attività primigenie ed essenziali del genere umano – si finiva nei grandi stanzoni degli ostelli della Sublime Porta che, ai meno abbienti, offrivano i tetti, più per risparmiare qualche lira turca che per sfuggire all'afa distesa sul Bosforo. La mattina al Pudding Shop, luogo deputato allo scambio di informazioni sul prossimo pullman, era un'occasione per ingollare yogurt e pasticceria ottomana grassa e zuccherina, ammantata di miele e pinoli e di cui avevi già avuto qualche sentore nei Balcani. Ora il Pudding è un ritrovo alla moda con le foto degli Anni Settanta alle pareti, locale senz'anima affacciato sulla fluorescente rivisitazione modernista del grande parco di Sultan Ahmet e dei suoi gioielli architettonici.
L'Iran, ancora terra dello Scià, era un passaggio veloce. Una notte all'Amir Kabir per i più fortunati e sennò il campeggio di Mashhad prima del confine afgano. Ed era qualche chilometro più a Est, alla frontiera di Tayyebad, il vero inizio del viaggio. Era a Kabul, la città di cui avevamo distillato ogni sapore nei racconti degli amici, il luogo dove esplodeva l'epopea dei ruggenti Settanta on the road. I freak erano così numerosi che si era creata una vera e propria colonia il cui santuario era Chicken Street, che è oggi l'ombra di se stessa ancorché, per qualche anno, la municipalità cittadina l'avesse onorata dell'unica insegna turistica che ho visto in quella città sulla linea del fronte che la guerra ha inghiottito da decenni. Quelli con più soldi stavano al Peace e lo chiamavi così perché se dicevi “Peace Hotel” voleva dire che eri un novellino. La giornata rituale comprendeva la pipa ad acqua, un giro alla Posta, la pipa ad acqua, una visitina alla moschea, la pipa ad acqua e il ristorante. Se avevi soldi ci scappava anche una seduta al Marco Polo, locale di lusso dove la cucina serviva il solito kabili palau (che solo anni dopo capimmo che non significa riso di Kabul), ma anche un vino d'uva che forse non era granché ma poteva farti evocare le colline dell'astigiano o i poemi del persiano Omar Kayyam. Anche gli afgani, che sono di lingua iranica, conoscono bene la sua poesia mentre noi, lo ammetto, cercavamo il sapore di casa in quel liquido senza retrogusto e tratto da un frutto ottimo per l'uva sultanina ma difficile – a quelle latitudini – da vinificare (pur se la tradizione della vigna e del vino erano antichissime). Nel percorso verso la Posta, il luogo sacro per un vero viaggiatore prima dell'avvento degli Internetcafé, del roaming o di WhatsApp (ricevevi la corrispondenza al Poste Restante che sarebbe il P.O. Box inglese e il nostro Fermo Posta ma che ovunque si declinava in francese), c'era la possibilità di un frullato di mele o di carote, unica chance vitaminica in un Paese dominato da riso e montone e dove pomodori e insalata erano a tuo rischio e pericolo. Meloni quelli sì, quelli di Kunduz, dolci e bianchi, promessa di frescura nelle estati torride e polverose della capitale afgana. Eppoi, già, la pipa ad acqua, un marchingenio per proiettare la sintesi estrema dell'hascisc più rinomato del pianeta direttamente nel cervello se a farti “sballare” non aveva già provveduto quel paesaggio di fieri cavalieri avvolti – estate e inverno – in una leggerissima coperta di lana – il patu - sotto un turbante da cui parte una striscia di cotone svolazzante come una cometa di luce che ha anche il pregio di riparare la gola dalla polvere.
Sul passo Kyber avevi giusto il tempo di ragionare del fatto che tra l'Afghanistan e il Pakistan esisteva una sorta di terra di nessuno dove comandavano pastori barbuti col fucile in spalla e un cappelletto di lana rotondo che avremmo rivisto anni dopo sulla testa dei mujahedin. Riallacciando le immagini di quei viaggi al senno di poi, abbiamo capito in seguito cosa fossero e sono le aree tribali pachistane e perché i guerrieri di Allah – ieri come oggi - sparavano a Jalalabad ma dormivano a Peshawar e perché anche adesso quella frontiera porosa è attraversata senza passaporto dai pashtun – talebani e non - che oltre confine si chiamano pathan. A Peshawar, che era ancora un paesone marcato dall'urbanistica del Cantonment britannico – il cuore militar coloniale disegnato dagli architetti di Sua Maestà – e non la città disordinata e molto pashtun-patana di adesso, c'era il primo impatto con la geografia umana del subcontinente indiano perché, e lo capivi dopo, la spartizione dell'India del 1947 aveva diviso a metà la regione del Punjab e dunque, di qua e di là della frontiera indo-pachistana, la gente era più o meno la medesima. Comprese le mucche che pascolavano tra gli scoli dei bazar anche nell'islamico Pakistan, salvo che qui finivano in stufato, di là al tempio. A Peshawar potevi stare in un alberghetto famoso perché affacciato sull'acquitrino formato dai residui del cambio dell'olio di un'enorme officina meccanica per camion dipinti con colori sgargianti. Quel rumore assordante già alle prime luci del giorno era capace di spezzare ogni poesia ma non certo la litania imprecante di ogni meccanico che si rispetti quando una vite non gira. E c'era anche un antico e fatiscente palazzo moghul dove ai prezzi delle stanze corrispondeva anche l'ubicazione in elevazione della stanza. Ma al contrario: pagavi bene e stavi al primo piano, ombreggiato e ventilato. Meno rupie e salivi a quello superiore. E, infine, se quattrini non ne avevi proprio, passavi la giornata su un terrazzo liquefatto, in stanzette che erano bugigattoli in lamiera caldi come forni. Erano per lo più abitati da junkie all'ultimo stadio, dimenticati dalle ambasciate e inseguiti senza fortuna dai parenti, per i quali il futuro più prossimo era una sostanza grigiastra derivata dallo sbriciolamento di pastiglie di morfina della Merck, fabbrica tedesca di stupefacenti legali venduti spesso illegalmente. La vulgata raccontava che Peshawar fosse diventata, vai a sapere come, il deposito di infinite scorte di morfina a far data della seconda Guerra mondiale. Costavan nulla e quei ragazzi finivano il loro viaggio esotico cercandosi le vene nel caldo poco mansueto della terrazza del National. Che ne ricordava un'altra, qualche mille chilometri più a Est: quella del Crown Hotel.
Alla fine di Chandni Chowk, nella vecchia Delhi, il Crown aveva la stessa struttura verticale del National. E la stessa fauna. Viaggiatori scandinavi dalle gote rosse e i capelli biondo quasi bianco, junkie francesi che imitavano Duchaussois, sfilacciati britannici dall'aria spiritata che ti raccontavano di questo o quel guru, spacciatori napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurta e pijama (mediati dal costume locale) su cui, col calar dei primi freddi, esibivano maglioncini di cachemire (Made in England però, anche se la lana veniva dall'India). Nuova Delhi, come tutte le città meta di viaggiatori, aveva le sue gerarchie anche nella colonia dei viaggiatori dell'Eden e non era solo una questione di prezzo. Ancora qualche anno fa, dal mio alberghetto di Parganji mi sono avventurato per Chandni Chowk: è lontana dalla luccicante Connaught Place ed è maledettamente sporca come deve essere sempre stata. Ma camminare lungo quella strada, dal Forte Rosso sino alla moschea di Fatehpuri, era ed è un viaggio attraverso tutto l'immaginario indiano: ciabattini musulmani, mendicanti indù, un tempio sikh davanti a un grande fallo shivaita, ricche signore del centro con sari dorati in cerca di braccialetti di vetro, grassi punjabi con capelli unti di gel scarrozzati da paria ansimanti su risciò laccati di rosso, austeri santoni seminudi, vacche sacre accompagnate da topi forse meno nobili ma non meno a loro agio. Adesso, ovviamente, son spuntati anche negozi di high tech ben ingrassati dall'olio di friggitorie di finissimi puri o di polpette di patate. E' una magia, se vi piace, che nemmeno la Shining India del miracolo economico è riuscita a intaccare.
Ma l'appuntamento vero era a Kathmandu dove la colonizzazione hippy aveva ribattezzato una strada Freak Street, che ancora c'è. Oggi però è un buon posto per contattare e intervistare giovani maoisti ormai integrati nel primo Paese al mondo, dopo la Cina, dove un partito ispiratosi a Mao ha messo mano alla Costituzione. Allora era il ritrovo di giovani maoisti occidentali disintegrati che invece che nella Repubblica popolare cinese erano approdati nel regno dei sovrani Gyanendra del Nepal, conservatori e latifondisti. Lì finiva la grande epopea che si risolveva in un biglietto dell'Air India prepagato da casa. O in un ritorno con epatite, pidocchi e un corpo spaventosamente smagrito a dispetto di un'overdose di sensazioni che ti riempivano l'anima appena raffreddata dal gelo che intanto era sceso su Kabul, in Anatolia o lungo l'Autostrada degli studenti costruita da Tito. E' che poi quel grande calore dell'anima andava di nuovo riscaldato. Alla Martesana e all'Abanella, sognando il prossimo viaggio. Chi non era ancora partito, abbeverandosi ai racconti che si facevano sogno e desiderio, risparmiava sull'aperitivo per comprare la prima tratta del viaggio all'Eden sino a Istanbul. L'estate prossima. Forse...
Quarant'anni dopo
Cosa ci muovesse allora alla volta dell’Eden non saprei dire: una specie di febbre il cui batterio originario veniva – covato sottopelle dall’epopea dei grandi viaggiatori – forse da lontano o era magari appena nato, si sarebbe detto allora, con i pidocchi che allignavano nelle nostre folte capigliature. Quella febbre era il sintomo di una malattia che attraversava tutta l’Europa e l’intero mondo occidentale che, dagli anni Sessanta in avanti, aveva cominciato a fremere, scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto ribellarsi (Ribellarsi è giusto! Aveva scritto il presidente Mao nel suo Libretto rosso) ci sembrava anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li chiamavamo allora marxianamente “sovrastrutture”) che potevano fermare il nostro desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: famiglia, matrimonio, fabbrica e sacrestia. Era il 1968 quando mi affacciai, forse ancora coi pantaloni corti, alla prima classe del ginnasio del Liceo Carducci di Milano. Ero un po’ tonto e ancora imbesuito dalle tradizioni della borghesia illuminata lombarda cui la mia famiglia apparteneva: le prime ragazze le avevo conosciute alle “lezioni di ballo”, appuntamenti che al sabato, sotto l’occhio vigile di mamme, sorelle e fratelli maggiori, consentivano il contatto furtivo con l’altra metà del cielo con avvicinamenti fisici impacciati e con debita distanza. Il resto era studiare e aspettare le vacanze oppure passeggiare per i negozi del centro aspirando a quel paio di mocassini o a quell’impermeabile. Il ‘68, esploso in tutta la sua potenza negli anni Settanta, fu uno schiaffo, salutare e poderoso, che mi spalancò, oltre all’universo della politica, tutto ciò che una famiglia protettiva ancorché progressista non avrebbe potuto rivelarmi né tanto meno consentirmi. Smisi di studiare, cominciai a guardare le ragazze con meno timore, iniziai a leggere i classici del marxismo e a “bigiare” le ore di lezione per andare al bar di fronte o al parco Lambro a parlare di politica. Ma la politica non era abbastanza. La liberazione che prometteva era la liberazione dalle catene della schiavitù operaia di cui noi avevamo solo la percezione. Nei primi anni Settanta però arrivavano anche altre suggestioni: le rivolte americane, i figli dei fiori, i provos olandesi, gli hippy e, naturalmente, le droghe i cui santoni spiegavano come fossero una via per allargare la coscienza, per guardarsi dentro: per liberare il mondo non solo dalle catene della fabbrica ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana. Perché ognuno potesse guardarsi dentro e, finalmente, liberarsi dal proprio ego. Contemporaneamente si faceva strada la grande suggestione delle filosofie indiane, cammini di liberazione che richiedevano un viaggio a Oriente. Il mio, il nostro Viaggio all’Eden, fu forse figlio di tutto ciò. Andiamo.
Decine di estati dopo è stato il mio lavoro a riportarmi su quella rotta. E la guerra è stata quasi sempre il motivo di frettolose partenze e di nuove meraviglie in un paesaggio Umano e geografico a volte rimasto immutato, altre completamente cambiato quando non stravolto o scomparso. Per ritrovare la strada, il filo che legasse i percorsi di allora a quelli attuali, ho messo dunque assieme gli appunti della mia memoria - e la fascinazione un po' orientalistica e ingenua che avevamo allora - con gli obblighi del resoconto giornalistico che non dovrebbe cedere né a fascinazioni né a ingenuità. Mi sono aiutato con gli articoli scritti in questi anni ma soprattutto con un meticoloso libretto di viaggio - resuscitatosi un giorno per magia da un vecchio baule - in cui avevo annotato nomi, indirizzi, orari degli autobus e prezzi. Ne vien fuori un viaggio all'Eden contaminato dai ricordi di allora e dalla rivisitazione odierna cui ho aggiunto le code che portavano su altre rotte: Sri Lanka, l’Indonesia, quella che chiamavamo Indocina. A Occidente, il Marocco. E ancora più a Occidente (o più a Oriente se è vero che la geografia è solo un punto di vista) nelle Americhe. In alcuni di questi luoghi son stato da ventenne e da ultracinquantenne. In alcuni invece non ero mai stato. In altri ancora non sono più tornato. In altri, devo ancora andarci….
A differenza del mio primo Viaggio all’Eden, quelli che ne son seguiti, un po’ perché avevo cambiato città un po’ perché il mio lavoro mi aveva sprovincializzato, ho perso quel tratto di milanesità (ben raccontata nel documentario di Felice Pesoli Prima che la vita cambi noi) che forse il lettore di Bologna, di Enna o di Fermo troverà persino insopportabile. I milanesi avevano – e ancora hanno – alcuni tratti adorabili, altri insopportabili un po’ come tutti gli altri italiani per altro, figli orgogliosi delle loro tradizioni comunali che sono il tratto meraviglioso (se uno pensa alla cucina) e al contempo spaventoso (se uno pensa ai razzisti di casa) del nostro Paese. I milanesi sono gran gente (Milan l’è un gran Milan) ma vi guardano sempre il colletto della camicia e se le scarpe son lucide e di marca. Vicino alla città italiana europea per eccellenza, nella capitale morale - dove si sa rubare con maggior maestria che altrove – son tornato oltre quarant’anni dopo per approdare nella mia vecchia casa a Crema che si chiama Ca’ delle mosche, anche se persino le mosche son state uccise da eccesso di diserbanti. A Milano vado raramente e in effetti è il distacco della campagna che mi ha permesso di rimettere ordine nei miei ricordi e di farne un viaggio a ritroso, sospeso tra presente e passato, consapevolezza e incoscienza, stupore e curiosità, una qualità – o un difetto - che non ho perso.
Questi racconti – che in forma assai più ridotta e a puntate sono in parte usciti sul quotidiano il manifesto - sono un omaggio a tutti quelli che fecero quel viaggio, a quanti si limitarono a sognarlo, a chi non lo fece mai e a chi oggi ancora percorre quelle rotte. In altro modo, con altri mezzi. Si dice del resto che il Viaggio all’Eden degli anni Settanta non fosse che il viaggio a ritroso che gli australiani facevano dall’Oceania all’Europa in cerca delle proprie antiche radici. Noi lo facevamo cercando chissà cosa e sapendo, come hanno detto persino gli 883, che la meta di un viaggio è in realtà il viaggio in sé.
Le foto in questa pagina sono di Guido Corradi
Vorrei dedicare queste pagine anche al padrone di una piccola residenza di Kabul – l'Ahmadshai Hotel di Sharenaw – dove ho passato un mese di passione e di fasto con alcuni amici nel 1974. L’ho invano cercato nei miei tanti viaggi nell'Afghanistan stravolto dai talebani, dai mujahedin, dalla Nato, dalle nuove colonie occidentali che i capelli non li portano più a coda ma ben rasati sull'orlo di candidi colletti. Si chiamava Ali e aveva allora vent'anni o giù di lui. Mi spiegò che noi eravamo gli araldi di una «plastic life», destinata a favorire una sana contaminazione tra genti diverse. Non so se avesse ragione ma era una bella idea.
Io poi son tornato a casa. Lui, quarant'anni dopo, non so che fine abbia fatto. Che Allah il misericordioso si prenda cura di lui.



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