L’inizio dell’ultimo pogrom è di alcune settimane fa quando i militari birmani hanno stretto d’assedio tre township nella zona orientale dello Stato di Rakhine, la regione al confine con Bangladesh e India dove vivevano oltre un milione di rohingya, una minoranza che in Myanmar non ha diritto alla cittadinanza, non può votare, è considerata immigrazione bangladese illegale e vive in gran parte in campi profughi nel suo stesso Paese. Per reagire all’accerchiamento delle aree di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, il gruppo armato Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) – accusato di terrorismo da Naypyidaw – ha sferrato venerdi scorso un’offensiva contro trenta obiettivi militari, scatenando una vera e propria battaglia con oltre 100 morti e la conseguente repressione – anche a colpi di mortaio - mentre si riprendeva una fuga in realtà mai interrotta dall’ottobre scorso quando si erano verificati incidenti simili. L’uso “sproporzionato” della forza militare - avverte International Crisis Group, un organismo di monitoraggio che da tempo segue la questione - non è solo da condannare in sé ma rischia di favorire la radicalizzazione della minoranza, favorendo la crescita di gruppi armati. Arsa, guidato da Ata Ullah alias Abu Ammar Jununi, rohingya nato in Pakistan che godrebbe di finanziamenti privati pachistani e sauditi, ha lanciato messaggi video di sfida al governo. Ma gli scontri nelle tre città del Nord hanno registrato anche singoli episodi di violenza verso buddisti, indù o altre minoranze.
Il flusso della fuga verso il Bangladesh si ferma quando le acque si calmano ma riprende appena l'esercito stringe la morsa. A metà agosto, la stampa del Bangladesh ha cominciato a dare conto dei nuovi arrivi che già avevano totalizzato un migliaio di profughi, riusciti a passare la frontiera clandestinamente. Ora sono almeno 3mila (in tre giorni), secondo l’Onu. Da quel che si capisce, aumentata la pressione ai posti tradizionali di passaggio dei profughi, i rohingya in fuga hanno trovato nuovi percorsi per sfuggire alle guardie accampandosi in campi informali e senza registrarsi. Ma in tanti sono ora nella no man’s land tra i due Paesi perché Dacca ha detto basta: oltre 80mila sono i rohingya già arrivati in Bangladesh da ottobre e in tutto sono circa mezzo milione, arrivati a ondate successive a partire già dal secolo scorso. Una tragedia senza fine consumata in silenzio ma con un bubbone sempre più purulento che adesso fa rumore anche se, di fatto, non si va oltre le pressioni verbali: il Myanmar non è la Libia e neppure l’Afghanistan o i Balcani. E le parole diritti, pulizia etnica, tortura, stupro, omicidio commuovono ma fino a un certo punto.
I messaggi di Arsa su Youtube. A dx il simbolo dell'organizzazione |
La solidarietà è scarsa a parte quella di Bergoglio, l’unico capo di Stato che ha strigliato Suu Kyi quando alcuni mesi visitò l’Europa. Malaysia e Indonesia fanno accoglienza. Molta l’ha fatto il Bangladesh che ora però chiude. Quanto all’India, fa sapere che vuole rimpatriare i rifugiati sul suolo indiano: 14mila registrati con l’Acnur e, pare, altri 400mila illegali.
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