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mercoledì 4 aprile 2018

Afghanistan: i raid e la protesta

In Afghanistan, guerra e pace si rincorrono, da Nord a Sud. Ieri, mentre nella provincia settentrionale di Kunduz venivano sotterrati i corpi di circa 60 civili, nell’Helmand, al confine meridionale con il Pakistan, si continuava a invocare l’immediato cessate il fuoco tra Talebani e truppe governative. Un passo ancor più necessario dopo la strage di lunedì, quando gli elicotteri delle forze afgane hanno colpito un raduno religioso nella madrasa di Gujur Akhundzada, nel distretto di Dasht-e-Archi, zona di Kunduz controllata dai turbanti neri. Il governo afgano a lungo ha cercato di negare l’evidenza: fino a ieri pomeriggio, uno dei portavoce del ministro della Difesa, Mohammad Radmanish, sosteneva che le forze di sicurezza avessero sì aperto il fuoco, ma soltanto su un edificio vicino alla madrasa, nel quale si sarebbe tenuto un incontro dei Talebani, inclusi alcuni membri della shura di Quetta (tra le cupole del movimento), che pianificavano attacchi imminenti. Per Radmanish, proprio i militanti sopravvissuti all’attacco aereo avrebbero sparato prima sugli elicotteri, poi sui civili inermi. Per dimostrare la buona fede dell’esercito, Radmanish ha sventolato le immagini dei Talebani che si aggiravano nella zona e l’elenco dei 18 comandanti uccisi nell’operazione, tra cui alcuni membri della famigerata “unità rossa”, responsabile di molti attacchi a Kunduz. Troppo poco per respingere le accuse dei famigliari delle vittime, che al contrario mostrano foto di bambini innocenti. Ormai morti.

(qui si può ascoltare la puntata dedicata al tema da Radio3mondo)


Nelle ore successive alla strage, sui social afgani sono circolate tante foto. Alcune vere, altre false. Sono parte della guerra di propaganda che il governo e i Talebani giocano sulla pelle dei civili. Per la guerriglia, il governo di Ashraf Ghani, al soldo degli americani, non rispetta neanche le scuole religiose e uccide indiscriminatamente i cittadini inermi. Per il governo, i Talebani si fanno scudo dei civili. Per ora, i dettagli di quanto accaduto lunedì rimangono incerti. Qualcosa di più sapremo dalla commissione d’inchiesta istituita dalle Nazioni unite (meno, da quella annunciata da Ashraf Ghani). Rimangono certe due cose. La prima è che i Talebani erano nei dintorni, ma sono morti decine di civili. La seconda è che i civili continueranno a pagare il prezzo più alto del conflitto, a meno di un immediato cessate il fuoco. Quello che invocano nell’Helmand, a mille chilometri di distanza da Kunduz, dove prosegue la protesta spontanea iniziata ormai oltre dieci giorni fa e che ha visto diverse persone organizzare cortei, sit-in e scioperi della fame nella città di Lashkargah, la capitale della provincia meridionale (dove l’ennesima autobomba aveva fatto stare di civili fuori dalla stadio cittadino).

Questa volta però la gente aveva reagito e, senza che la cosa fosse organizzata o diretta da qualche organizzazione: manifesti, bandiere, sit in e sciopero della fame, cui hanno partecipato uomini e donne, giovani e anziani, con la richiesta a governo e guerriglia di una tregua senza ulteriori meline. Imbarazzo totale: sia da parte talebana sia da parte del governo. Poi qualcosa si è mosso, anche perché la protesta ha contagiato un altro distretto dell’Helmand (Nawah) mentre solidarietà arrivava dalla provincia di Balkh nel Nord e da Kabul. Prima il governo locale di Helmand ha deciso di appoggiare la richiesta di tregua. Poi si è mosso il locale Consiglio degli ulema, che ha chiesto la fine dello sciopero della fame ma che ha anche scelto di volersi far carico del messaggio ai Talebani con la costituzione di un comitato che faccia sue le richieste dei cittadini. Infine, ieri, sono arrivati a Kandahar (la provincia vicina) sia i responsabili dell’Alto commissariato per la pace (Hpc) sia i notabili del Consiglio nazionale degli ulema (Unc). L’occasione era la prima assemblea generale dell’Hpc fuori da Kabul ma il suo capo, Karim Khalili, non ha potuto evitare di rendere omaggio agli autoconvocati di Lashkargah, reiterando le aperture dell’Hpc ai Talebani cui Khalili è pronto a offrire un’agenda per l’uscita delle truppe straniere dal Paese. Gli faceva da spalla Maulawi Kashaf, a capo dell’Unc. Entrambi gli organismi sono due creature dell’ex presidente Karzai e prendono uno stipendio dal governo. Ma se la loro credibilità non è elevatissima, il segnale c’è evidentemente anche nel governo. E non solo in Afghanistan.

 Le cose si muovono anche in Pakistan: la nascita del Pashtun Tahafuz Movement (Ptm) o movimento per la protezione dei pashtun ne è un esempio: è gente che vuole che si smetta di considerare questa comunità (il 15% della popolazione del Paese) come reietta o semplicemente terrorista. Un movimento guardato con sospetto da governo e militari e guerriglia. Come in Afghanistan.

A due mani con Giuliano Battiston per il manifesto oggi in edicola




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