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lunedì 7 gennaio 2019

Com'era bella la mia isola

Sulla Thailandia insistono ogni anno circa 35 milioni di turisti. Considerato che è – se non la prima – tra le prime destinazioni mondiali e che, con 70 milioni di abitanti, uno su due è un turista (anche se ovviamente non tutti viaggiano nello stesso periodo), l’impatto non è devastante come ci si aspetterebbe, perlomeno qui nell’isola di Ko Chang, nel Nordest thai al confine con la Cambogia. A prima vista però la sensazione è tutt’altra: l’intera costa orientale dell’isola è un susseguirsi, quasi ininterrotto, di cottage, negozi, ristoranti, boutique e sale massaggio: attraversate musica, rumore e vari menù in cirillico.

Colonizzata da belgi, russi e cinesi (che contano un terzo delle presenze turistiche della Thailandia), il primo impatto – per chi amerebbe sfuggire al sound sfrenato dei vari cloni della stracitata Rimini - è deprimente. Ma di secondo acchito le cose cambiano. Girando in motorino (meno di 6 euro al di) si scoprono paesaggi incontaminati e le costruzioni, al 95% di un piano o due, non si notano dal mare: sono nascoste dal folto della macchia selvaggia che ricopre l’intera isola (anche se purtroppo arrivano a ridosso della battigia). E più si va a Sud, più la pressione turistica diminuisce e così i prezzi dei bungalow (da 15-20 euro in su per una doppia).
Resort seminascosti ma sulla spiaggia a Ko Chang
Sotto: Ko Wai

C’è di più: prendendo un battello per le altre isole, si può trovare la piacevole sorpresa di Ko Wai (la più piccola delle abitate) dove l’elettricità arriva solo col generatore 5 ore al giorno e non c’è neppure il wi fi, ossessione della nostra epoca (si può però comprare una sim locale per 590 bath, poco meno di 17 euro). Ko Wai è davvero “basic”: niente acqua calda, niente ac, nemmeno il ventilatore. Ma per chi ama starsene in pace è un luogo da sogno anche se, per quel che ti vien dato, il sogno ha un costo relativamente elevato (l’isola non si può attraversare così che si rimane confinati nel resort selezionato dove nell'unico ristorante si paga il doppio che a Ko Chang).

C’è un altro elemento interessante che dà conto dell’organizzazione ormai capillare del turismo thailandese. Poiché il servizio taxi a Ko Chang è assai ridotto, per raggiungerla – dal continente o dalle isole - ci si mette d’accordo con le varie barche per andare dal molo dove verreste scaricati al tal posto, al tal resort. Ed è la barca che poi, compreso nel prezzo (caro), vi consegna un servizio free taxi dal porto al vostro albergo. Molto comodo ma inquadrato e, se non avete dove andare, vi mollano al molo e sciao. Infine: se la splendida Ko Wai equivale a un’esperienza da Robinson – che anche tante famigliole con figli piccini scelgono però di fare – la plastica è la maledizione che vi circonda. I locali la raccolgono per tenere un po’ in ordine e anche voi potete contribuire: ma il mattino seguente il vostro angolo di paradiso è ancora un’accozzaglia di cannucce, ciabatte, bottiglie, sminuzzati puzzle di polistirolo portati dalla corrente o dal monsone (nord ovest nell’inverno boreale). Fin dal Vietnam o dalla vicina Cambogia. Anche Ko Wai vi ricorda che il pianeta è uno. Che quando buttate da qualche parte la cicca, il blister di farmacia, la plastica che avvolge un mazzo di carte, tutta sta robaccia non degradabile continua a viaggiare. Spesso lungo i fiumi fino al mare. E magari da Milano arriva a Ko Wai dove Robinson scopre (o si ricorda) che esiste Nestlè.

Due piccole note. La prima: sulle strade tailandesi abbiamo notato pochissima plastica che abbonda invece sulle civili strade italiane. La seconda: a Ko Wai, che direste meta di evoluti olandesi volanti, algidi britannici o aguzzi svedesi, c’è una discreta quantità di cinesi a cui piace, quanto a noi europei, anche l’esperienza selvatica e minimale (nel senso dei servizi) dell’isola selvaggia. Il pianeta è sempre uno e i comportamenti tendono a uniformarsi. Non sempre al peggio.



Nella foto qui sotto si vede il sovrumano sforzo di raccolta di plastica e lattine del Paradise Resort. Il suo manager paga una volta l’anno una barca privata che per 7mila bath (200 eu) conferisce il materiale a un’azienda di riciclaggio sul continente. Il ricavato non compensa la spesa del viaggio di trasporto.



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