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sabato 6 luglio 2019

L'Himalaya è a secco

Un contadino afgano ha una disponibilità d’acqua quasi trenta volte minore rispetto a un suo omologo cinese, indiano, birmano o bangladese. Eppure abitano la stessa macroregione, un’enorme catena montuosa affacciata su pianure desertiche o alluvionali, distese secche o paludose a volte inondate da una tale quantità d’acqua da essere assi più a rischio di aree che corrono quello di siccità. È la grande macroregione dell’Hindu Kush-Himalaya, dal nome delle due grandi dorsali che iniziano dopo l’altipiano iranico per perdersi verso il Mar Cinese Orientale. Finora nessuno aveva messo assieme così tante realtà geografiche cercandone i tratti comuni e collegando, come in natura sono collegate, le montagne, le pianure e i fiumi che attraversano quasi metà del pianeta. Otto Paesi: Afghanistan, Pakistan, India, Cina, Myanmar, Bhutan, Nepal e Bangladesh.

Un consorzio di centri di ricerca e un team di diverse decine di studiosi non solo del clima – in gran parte asiatici – formano lo staff che ha partorito il primo studio completo eppure in evoluzione sul presente e sul futuro del più imponente complesso montuoso del globo e dei suoi corollari. The Hindu Kush Himalaya Assessment. Mountains, Climate Change, Sustainability and People è una ricerca su cambiamenti climatici, globalizzazione, movimento di popolazioni, conflitti e degrado ambientale che attraversano la regione ma anche un modo per proporre soluzioni e individuare risorse. Con notizie non molto confortanti. La prima è che – come ha scritto Nishtha Chugh su The Diplomat nel commentare il rapporto – «l’Asia meridionale, già vulnerabile ai disastri naturali, potrebbe essere lasciata alle prese con milioni di rifugiati climatici» ma anche con gli effetti di «conflitti regionali e contese militarizzate su risorse preziose come cibo e acqua».

Tanto per cominciare, la ricerca prevede che – se le emissioni globali di gas serra non saranno drasticamente ridotte – i ghiacciai che occupano la catena montuosa himalayana si ridurranno di due terzi entro il 2100. E lo sforzo collettivo attuale di riduzione del riscaldamento globale non impedirà comunque che un terzo dei ghiacciai si riducano entro la fine del secolo. Bisognerebbe fare di più. Perché non sarà indolore. La filosofia di questo lavoro risiede nell’idea che questi otto Paesi – con realtà agricole e urbane molto diverse – siano profondamente intrecciati da una complessa rete di ecosistemi, fiumi, biodiversità, centinaia di picchi sopra i 6mila metri, e risorse naturali cruciali. Oltre a quello che viene anche chiamato il «Terzo Polo» (i ghiacciai dell’Himalaya), la regione ospita infatti dieci grandi bacini fluviali che dai nevai himalayani si alimentano: dal Mekong al Gange, dai grandi fiumi cinesi all’Indo sino al piccolissimo Kabul, un corso d’acqua che è quasi un torrente. Sempre sull’acqua, il rapporto è ricco di sorprese: l’accesso all’acqua potabile in Pakistan, per esempio, pur avendo una disponibilità di risorse idriche doppia rispetto all’Afghanistan e non essendo un Paese ufficialmente in guerra, è del 48% contro il 50 del vicino che soffre 40 anni di conflitto. In Cina è dell’89%, in Myanmar del 71. La performance migliore è del Bhutan: 92%.


Lo studio è un rapporto di valutazione che cerca di stabilire lo stato dell’arte di un’area lunga 3.500 chilometri dove vivono 240 milioni di persone (sia nelle aree collinari sia in quelle di montagna) e un miliardo e 650 milioni (in totale siamo a più di un quarto della popolazione mondiale) che abitano i bacini fluviali a valle. L’intenzione dello studio, per il suo carattere interdisciplinare e anche per aver messo assieme un network esteso (e forse per la prima volta anche di studiosi che in quelle aree vivono e lavorano), è di farne un materiale di lavoro per il Panel on Climate Change (Ipcc): individuare rischi e risorse di un’area conosciuta soprattutto da scalatori e geografi ma mai studiata nella sua interezza. Il rapporto è un pezzo di un progetto più ambizioso: l’Hindu Kush Himalayan Monitoring and Assessment Programme’s (Himap), il cui obiettivo è individuare non solo risposte scientifiche ma soprattutto politiche perché «la conoscenza si trasformi in azione». Il suo staff è di circa 350 persone tra tecnici, scienziati, ricercatori.

Il lavoro del team è legato a speranze che, di questi tempi, appaiono veramente remote: Lo studio mira «a disegnare il significato globale dell’Hkh, ridurre l’incertezza scientifica sulle questioni montane, presentare soluzioni pratiche e aggiornate e offrire nuovi spunti per lo sviluppo della regione, valorizzare e conservare gli ecosistemi, le culture, le società esistenti, i legami, la conoscenza e le soluzioni specifiche dell’Hkh che sono però importanti anche per il resto del mondo, mettere sul piatto politiche da adottare, influenzare i processi decisionali fornendo solide prove», scrivono i ricercatori. Le prove le forniscono. Ma i processi politici sono ancora molto al di là da venire.

Questo articolo è uscito sull'inserto ambientalista de il manifesto il 26.6.2019

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