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domenica 17 aprile 2022

Sri Lanka fallisce ma i Rajapaksa restano


La ricorrenza del nuovo anno il 14 aprile, festeggiato giovedì da singalesi e tamil nello Sri Lanka, si è trasformata nell’ennesima protesta di piazza contro presidenza e governo della famiglia Rajapaksa. Una famiglia indicata come la responsabile della peggior crisi economica del Paese in oltre mezzo secolo e che ha portato l’esecutivo a dichiarare default: fallimento. Nonostante le proteste di piazza, seguite alla svalutazione della rupia e all’aumento dei prezzi, i due fratelli Rajapaksa – Gotabaya (presidente) e Mahinda (premier), dinastia locale in sella da decenni – sono però rimasti al loro posto nonostante le dimissioni in massa dei ministri (tre dei quali sempre della stessa famiglia). Le elezioni sono ancora lontane e sperano forse di riguadagnare terreno benché la loro popolarità sia ormai inversamente proporzionale all’aumento del costo della vita.

Benché a lungo contrario alle ricette del Fondo monetario, il clan Rajapaksa ha ora chinato la testa. Ma i sacrifici che il Fmi richiede, su base come minimo triennale, porteranno a una nuova emorragia di consensi. Come i Rajapaksa gestiranno il dossier, sempre che riescano a restare in sella, appartiene alle speculazioni sul futuro. Ma intanto sarà bene dare un’occhiata al passato per capire cosa abbia fatto del boom srilankese, nato dopo la fine di 26 anni di guerra civile contro il separatismo tamil, un buco nero senza fondo.

«Verso la fine della guerra, nel 2006, il governo – spiega l’economista Vidhura Tennekoon su The Conversation – ha cercato di far ripartire la crescita prendendo prestiti e attirando capitali. A breve termine la strategia ha funzionato. L’economia è esplosa, facendo salire il Pil pro capite da 1.436 dollari nel 2006 a 3.819 nel 2014. Ciò ha fatto uscire 1,6 milioni di persone dalla povertà e ha dato origine a un’ampia classe media. Nel 2019, lo Sri Lanka saliva ai ranghi dei Paesi a reddito medio-alto». La designazione tuttavia durerà solo un anno perché tutta quella crescita aveva un costo. «Il debito estero dello Sri Lanka era triplicato dal 2006 al 2012, portando il debito pubblico totale al 119% del Pil».

Nel 2015 il governo frena la sua politica ma il debito continua ad aumentare mentre, qualche anno dopo, l’arrivo del Covid colpisce il turismo, uno dei maggiori introiti di valuta (con le rimesse) del Paese. Nel 2020 il solo servizio del debito aveva svuotato le casse di oltre il 70% delle entrate del governo, spingendo la Banca centrale a stampare moneta: evitando il default ma alimentando l’inflazione. Rifiutando le ricette del Fmi il Paese ha così continuato a chiedere prestiti agli amici (cinesi soprattutto) mentre inflazione e penuria di beni di prima necessità andavano di pari passo. La crisi ucraina, con l’aumento dei prezzi dell’energia e la forte riduzione del turismo russo, ha sancito il collasso. Il 12 aprile scorso lo Sri Lanka ha annunciato uno stop del rimborso del debito estero, sia dei prestiti bilaterali sia di quelli ottenuti dalle istituzioni internazionali ma, nell’annunciare il default, ha dovuto accettare che la ristrutturazione del debito venga gestita dal Fondo monetario. Se per ora la fine del rimborso – lunedì si dovrebbero pagare 78 milioni di dollari di interesse sui titoli sovrani internazionali – può garantire beni acquistabili in valuta, la crisi non potrà che aggravarsi e costare lacrime e sangue ai 22 milioni di abitanti della Lacrima dell’Oceano indiano.

Quanto al sostegno dei Paesi amici, lo Sri Lanka se la deve vedere con India e Cina, i principali creditori: due Paesi che però si guardano in cagnesco e i cui prestiti sono finalizzati per Pechino a conservare i privilegi e per Delhi a recuperare i vantaggi in parte perduti con l’arrivo massiccio di investimenti cinesi. Le rivalità regionali e globali complicano anche il modo in cui lo Sri Lanka può far fronte al debito, spiega su Foreign Affairs, l’economista Dushni Weerakoon: «Fare affidamento su relazioni bilaterali può essere pericoloso nel contesto di rivalità geopolitiche. La Cina è il più grande creditore bilaterale dello Sri Lanka e i suoi investimenti sono aumentati negli ultimi dieci anni ma Pechino non ha ancora risposto all’appello per la cancellazione del debito… sebbene la quota dell’India sia inferiore, quel Paese continua a esercitare un’influenza formidabile sullo Sri Lanka in virtù della sua influenza politica ed economica». E ora New Delhi, che è stata danneggiata in passato dagli accordi con Pechino, prima di mettere mano al portafogli, chiede garanzie.

Pubblicato nell'edizione del 17 aprile 2022  del manifesto

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