La Conferenza della società civile afgana conclusasi ieri a Kabul, di cui l'Italia ha qualche merito, può sembrare ai più poca cosa. Belle parole al vento su un termine usato e abusato che spesso non vuol dir nulla, al più una seccatura imposta dal buon cuore. Questo è quello che deve aver pensato, e con lui molti governi occidentali, anche il governo afgano, il cui ministro dell'Economia, che aveva promesso un intervento, non si è fatto vedere senza neppure preavvertire. Ma 150 delegati da 34 province, la metà dei quali donne - anche piuttosto agguerrite - dovrebbero far riflettere. E non solo sull'atto di cortesia e di rispetto che si deve a chi fa, con qualche difficoltà, una marcia dalla periferia alla capitale sfidando bombe e talebani, tagliagole e mine al ciglio della strada.
Ascoltare le voci che provengono dal basso dovrebbe forse diventare uno dei nuovi strumenti della diplomazia moderna soprattutto se, com'è successo a Kabul, tra quei 150 delegati non c'erano soltanto le solite tre o quattro Ong che parlano il dialetto convenzionale dei summit ma i rappresentanti di associazioni e sindacati (ebbene si, ci sono anche in Afghanistan), fondazioni culturali e think tank nazionali (ebbene si, ci sono anche quelli), club di poeti e leghe di avvocati e giornalisti. Se dunque per società civile si intende non una semplice accozzaglia di sigle ma un insieme di idee e di vivacità che, sorprendentemente, animano anche un panorama sociale devastato da trent'anni di guerra, forse è bene prestare orecchio.
Questo genere di presenze, questo tipo di attori, questa razza disomogenea e vivace è qualcosa in più della semplice “generazione facebook” con cui abbiamo derubricato le rivoluzioni del Maghreb e del mondo arabo, che non solo non abbiamo visto arrivare ma che stentiamo a capire. La nostra diplomazia, i nostri governi, buona parte dei media, abituati al fatto che “ormai tutto si decide a quattr'occhi nei G20 o nei G2”, a questo mormorio non prestano orecchio col risultato che quando accade qualcosa non conosciamo gli interlocutori, ci sfuggono i motivi, non sappiamo nulla di quel mondo sommerso che ci pare sia comparso sul web come d'incanto.
L'istruzione sempre più diffusa, masse di neo laureati che entrano in mercati del lavoro asfittici, cittadini che malsopportano regimi autocratici o falsamente democratici, fanno di questo mormorio una lenta marea montante che, apparentemente in modo improvviso, fa saltare pentole e coperchi di fronte alle facce stupite di ambasciatori e analisti, ministri e sottosegretari, algidi funzionari delle più svariate commissioni. Eppure il mormorio, nelle strade del Cairo o di Kabul, nei vicoli di Avenue Bourghiba o dietro ai centri commerciali di Manama, si sarà pur sentito. E' difficile prevedere una rivoluzione e sarebbe anzi più augurabile che le turbolenze pre rivoluzionarie fossero percepite da un ascolto attento che le trasformi in un dialogo aperto anziché in movimento antagonista. E spesso è solo questione di ascoltare. Ma per farlo bisogna scendere in strada. Ai piani alti certi mormorii proprio non arrivano.
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