Tutto gira attorno a quella Suzuki bianca che da Peshawar, nelle aree tribali, portava il “corriere” di Osama verso Abbottabad nell'estremo occidentale della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, un pugno di chilometri dalle vette del Gilgit-Baltistan e dell'Azad Kashmir. Come tutti i giornali scrivono, quel punto di partenza si deve a una soffiata pachistana ma non è l'unico anello finora ammesso che veda assieme pachistani e americani: oltre alla Suzuki bianca, una macchina come mille altre in Pakistan, ci fu una condivisione di informazioni su Abbottabad dal 2009. Non molto di più se non forse un sottile gioco delle parti che è troppo presto perché possa venire smaccatamente disvelato.
E se il presidente pachistano Asif Ali Zardari, sul Washington Post, sentenzia che il suo Paese non ha collaborato all'operazione Abbottabad, è anche vero che l'ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti ha annunciato che Islamabad aprirà un'inchiesta per “fare piena luce” sull'operato dei servizi di intelligence pachistani (Isi) nella caccia a Osama. E si perché, ammette Hussain Haqqani alla Cnn, “...è chiaro che bin Laden aveva una rete di sostegno...la questione è sapere se questa rete si trovava all'interno del governo, dello Stato o della società pachistana....”. Nel contempo il dicastero degli Esteri smentisce l'utilizzo di basi nazionali per gli elicotteri Usa in missione su Abbottabad. Insomma due messaggi che cercano di parlare a pubblici diversi: quello pachistano e quello americano-occidentale.
I due messaggi hanno scopi diversi: in Pakistan rassicurare il popolino che Islamabad non fa quel che Washington comanda. All'estero, metter nero su bianco che Islamabad collabora e che, lo si creda o no, resta un alleato affidabile. Gli americani fan buon viso a cattivo gioco: un po' fan la faccia dura, un po' ammiccano. E anche tutti gli altri ci stanno: i francesi un po' più muscolari avanzano dubbi, i britannici fanno mostra di realismo politico, i cinesi assicurano che non molleranno l'alleato di sempre. Insomma il gioco delle parti funziona: il Pakistan è cattivo, anzi no si può perdonare. E in casa?
La stampa pachistana (in lingua inglese) fa la voce grossa. L'autorevole “The Dawn” solleva sospetti sull'effettiva collaborazione tra la Cia e l'Isi e si domanda se gli americani si fidino o no degli alleati ma sul PakTribune il premier Gilani spiega che la caccia a Osama è stata resa possibile da uno scambio di informazioni tra americani e uomini dell'intelligence di un Paese “schierato nella guerra al terrore”. Mezze ammissioni. Con prudenza: non è che ai propri cittadini si può dire che con gli americani siamo un tutt'uno e rinnegare scontri durati un anno al calor bianco sulla violazione degli spazi aerei (coi droni) e della sovranità nazionale (come tra l'altro ricordato ieri da un gruppo di senatori dell'opposizione e dal ministero degli Esteri). Bisogna andarci piano. E insomma, com'è andata?
La teoria che va per la maggiore, con qualche solido appiglio, è che nell'Isi (nell'esercito, nel governo, nel Paese) ci sono forse più di due anime antitetiche, spesso conflittuali ma che tutto sommato convivono in un Pakistan che di anime ne ha diverse: filoccidentali, smaccatamente antiamericane, integraliste, eminentemente laiche, secessioniste, di minoranza e via discorrendo. Farle convivere, utilizzarne i vasi comunicanti, reggerne i diversi equilibri profittando ora dell'una ora dell'altra, è stato uno dei grandi rovelli (e drammi) di ogni presidente, dal pragmatico fondatore del Paese dei puri, Ali Jinnah, al socialdemocratico Zulfikar Bhutto, al fervido islamista Zia Ul-Haq per finire col fragile Asif Zardari dei giorni nostri. Partita difficile e sempre sotto la spada di Damocle di un potente vicino (Delhi) pur se con l'appoggio di qualche altro potentissimo alleato (Pechino e poi Washington, a volte Riad.
Ma se c'è un fronte interno complicato e pieno di misteri c'è intanto un fronte esterno che cerca una soluzione: l'Afghanistan. Ieri si è svolto il vertice Usa-Pakistan-Afghanistan con l'inviato speciale americano per la regione, Marc Grossman, il segretario agli Esteri pakistano, Salman Bashir, e il vice ministro degli Esteri afgano, Jaweed Ludin. Quale sia in questo caso il gioco delle parti è un'altra storia ancora e forse ancor più intricata perché vi si decidono le sorti di una guerra trentennale. Su cui la morte di Osama apre uno spiraglio. O un nuovo imbroglio.
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