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sabato 3 dicembre 2011
COSA CHIEDONO "AFGANA", TAVOLA E RETE DISARMO
“Afgana”, Tavola della pace e Rete Italiana per il Disarmo per la riconversione della spesa militare e per un negoziato tra governo e società civile. Per decidere come sostenere la ricostruzione in Afghanistan
L'appuntamento di Bonn
A dieci anni dalla Conferenza di Bonn che nel 2001 varò la nascita del "nuovo Afghanistan" sotto tutela internazionale, il prossimo 5 dicembre i leader di 90 Paesi si ritroveranno in Germania a fare il punto sui risultati ottenuti in questi due lustri. Il giudizio della società civile italiana ed europea, di recente espresso in un documento comune reso pubblico a metà novembre*, non è lo stesso che presumibilmente verrà enunciato a Bonn, sede nella quale si corre il rischio di far apparire le luci assai più forti delle ombre.
Nell'Afghanistan di oggi, soltanto il settore dell'istruzione ha fatto passi avanti significativi. Sul fronte della sicurezza per gli afgani la situazione è peggiorata, a fronte di un processo negoziale che non sembra procedere e che manca di mediatori credibili (una figura terza tra governo e talebani che sia garanzia di una mediazione autonoma). Ogni anno il conflitto produce quasi tremila vittime civili (2777 nel 2010 con un aumento del 15% e con 1500 persone uccise nei primi sei mesi del 2011) e la politica dei bombardamenti indiscriminati (altrimenti tradotti come "mirati") sembra ancora essere la scelta preferita da Isaf/Nato, nonostante i ripetuti richiami dello stesso governo Karzai. Benché sia infatti diminuito l'uso della guerra dall'aria, il numero dei civili uccisi dalle forze pro-governative (esercito afgano e NATO) è diminuito solo del 9% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. E, sebbene le persone che rimangono uccise da azioni ed attentati delle forze anti-governative rappresentino l'80% dei morti, le donne, gli uomini e i bambini uccisi in raid della NATO e in azioni delle forze afgane sono ancora il 14% del totale: i circa 300 raid notturni condotti ogni mese continuano inoltre a seminare paura, distruzione, morte, sfiducia e rabbia nella popolazione.
La situazione
Sul fronte dei diritti di base, l'accesso all'acqua potabile e all'elettricità resta, specie nella campagne, ancora a livelli minimi e la possibilità di accedere a servizi di sanità pubblica, in un Paese che si sta pericolosamente avviando verso la privatizzazione del servizio e che il rapporto sullo Sviluppo umano dell'Onu ha classificato al 147 posto tra i Paesi con le performances peggiori, resta privilegio di pochi (un bambino su cinque continua a morire prima del compimento del quinto anno di età). Quanto alla condizione della donna, sbandierata come uno dei grandi successi assieme alla diffusione dei media e di una nuova indubitabile crescita della coscienza dei propri diritti, meno del 15% delle donne afgane sono alfabetizzate mentre l'87% fra loro è oggetto di diversi tipi di abuso (matrimoni combinati, violenza sessuale etc) tra le pareti domestiche.
Proprio questa condizione del Paese impone dunque un vasto ripensamento del mondo in cui finora sono state utilizzate le risorse impegnate dalla comunità internazionale in Afghanistan. Mediamente il 90% di queste risorse sono andate a sostenere l'intervento militare e solo il 10% (per l'Italia anche meno) è stato impiegato in progetti di cooperazione civile; di questa somma inoltre, oltre un terzo è stato speso per garantire la "sicurezza" al progetto stesso. Infine il completamento del ritiro della forza militare entro il 2014, come Bonn dovrebbe definitivamente sancire, corrisponde alla percezione generale, largamente diffusa tra gli afgani e tra le agenzie umanitarie, che la transizione possa trasformarsi nell'abbandono di un Paese che invece richiede ancora sforzi per la ricostruzione e il rafforzamento delle conquiste sul piano dei diritti umani e sociali.
La proposta
Per questo motivo la rete italiana di Afgana, la Tavola della pace e la Rete Italiana per il Disarmo, chiedono al parlamento italiano che, a partire dall'inizio del ritiro del contingente italiano, per ogni euro risparmiato per le spese della missione militare, 30 centesimi vengano stanziati per interventi di cooperazione civile. Che in sostanza, una volta avviato il ritiro del contingente militare nel 2012, sia destinato il 30% di quanto risparmiato nella spesa militare a investimenti di cooperazione civile. Chiediamo infine che anche le modalità di intervento e di spesa siano concordate in un forum tra il titolare dei fondi civili (il ministero degli Esteri) e la società civile e che il parlamento si impegni a rendersi garante delle scelte operative che ne emergeranno.
Si veda il dossier: Bonn conference: joint position paper of European Ngo's and Civil Society. International Afghanistan Conference, December 2011, Bonn: Priorities for Action
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4 commenti:
Caro Emanuele,
ti riporto di seguito la lettera che ho inviato a Sergio Romano in merito alla risposta che lui ha dato alla lettera che gli hai inviato sulle pagine del Corriere del 6 dicembre 2011 ("Come restare in Afghanistan dopo il ritiro degli americani").
Te la riporto in fondo a questo post essendo, credo, ad esso collegata.
Spero che possa interessarti.
In bocca al lupo per il tuo lavoro e, spero, a presto!
Giulio
(dal commento precedente) / 1
--
Caro Sergio Romano,
Le scrivo in merito alla domanda sollevata su queste pagine del Corriere da Emanuele Giordana nella domanda da lui formulata "Come restare in Afghanistan dopo il ritiro degli americani" e pubblicata il 6 dicembre 2011. Nonostante io legga sempre con grande interesse le Sue risposte, trovo che questa volta la Sua replica sia stata incompleta, non avendo, almeno a mio avviso, affrontato in modo appropriato la questione posta dal portavoce di Afgana.
Mentre non ci sono dubbi, infatti, che per il futuro dell'Afghanistan un ruolo decisivo sarà giocato dalla soluzione di alcuni dei determinanti problemi da lei accuratamente elencati (il ruolo destabilizzante di alcuni attori regionali quali Pakistan e Iran, solo per fare un esempio), non è altrettanto chiaro quale sia il valore che Lei attribuisce alla società civile afgana e, in particolare, quale potrebbe essere l'interesse italiano nel continuare a sostenere quest'ultima nel futuro di medio e di lungo termine del paese centro-asiatico. Se non ho capito male, tra l'altro, proprio in questi due quesiti consistevano le domande rivolteLe da Emanuele Giordana nella sua lettera.
Dal 2014 al 2024, periodo che dovrebbe portare l'Afghanistan "dalla transizione alla trasformazione" almeno secondo il motto della "Bonn Conference II" tenutasi in Germania il 5 dicembre 2011, la società civile avrà un ruolo cruciale per il futuro del popolo afgano.
(...)
(dal post precedente) / 2
In un paese tanto frammentato dal punto di vista etnico quale quello afgano, una società civile forte funziona come strumento di mediazione e di riconciliazione tra le varie parti in conflitto, sfruttando la propria "imparzialità" e fungendo da "ponte" tra le diverse etnie e tribù. Inoltre, specialmente nella situazione afgana di post-conflitto e di ricostruzione, una società civile solida contribuisce sicuramente alla stabilizzazione fungendo da "rete" sociale all'interno del paese: molti dei "servizi" che il governo, a causa della cattiva amministrazione delle risorse pubbliche e dell'alto tasso di corruzione, non riesce ad erogare ai propri cittadini, vengono garantiti dalle organizzazioni civili (Civil society organizations) e dalle organizzazioni non governative di varia natura. Ancora, una società civile sviluppata, promuovendo la creazione e il consolidamento di una "coscienza civica responsabile" tra gli afgani, contribuisce certamente al miglioramento della qualità della "democrazia" e, in generale, della vita pubblica afgana: solamente una società civile di tal tipo, infatti, può assolvere compiutamente ed efficacemente al compito di "controllore" delle azioni e dei comportamenti dei detentori di cariche pubbliche rinsaldando il legame di "accountability" che dovrebbe esistere in ogni società tra i cittadini ed i propri politici e funzionari. Infine, molto spesso alcune delle organizzazioni della società civile afgana sono tra gli unici attori nel paese a promuovere alcuni valori fondamentali quali il rispetto e la protezione dei diritti umani e delle donne in particolare, il dialogo inter-etnico e inter-culturale, l'educazione primaria e secondaria per tutti i bambini e le bambine del paese, l'assistenza medica e sanitaria, la reintegrazione e la riconciliazione di molti dei gruppi coinvolti nella guerra civile e nell'insorgenza.
Quelli elencati sommariamente qui sopra sono solo alcuni degli aspetti collegati al ruolo positivo della società civile in Afghanistan; molti altri se ne possono trovare consultando i rapporti e le pubblicazioni presenti sul sito di UNAMA, la missione (poco conosciuta in Italia nonostante il suo capo sia l'italiano e neo-sottosegretario Staffan de Mistura!) delle Nazioni Unite in Afghanistan.
A conferma e riconoscimento di un simile ruolo della società civile, a Bonn, durante una conferenza organizzata dalla prestigiosa Deutsche Atlantische Gesellschaft in parallelo alla Conferenza del 5 dicembre, ho anche personalmente ascoltato il parere sia di autorevoli esponenti afgani (ad esempio della dott.ssa Sima Samar, attuale presidente della Commissione indipendente afgana per i diritti umani e candidata al premio Nobel per la pace nel 2010), sia di molti giovani e brillanti studenti afgani.
Le iniziative promosse da Afgana non dovrebbero essere sottovalutate dai decisori italiani per almeno due motivi: primo, esse portano dei benefici estremamente positivi per il popolo afgano; secondo, queste iniziative hanno delle ricadute decisamente vantaggiose per la politica estera del nostro Paese che, nel sostenerle, incrementerebbe i propri legami di lungo termine con l'Afghanistan e accrescerebbe la propria posizione nei confronti degli altri paesi di ISAF.
Uno strumento dunque che, seppur appartenente alle "nuove forme" della diplomazia, dovrebbe essere tenuto in grande considerazione dal governo (ministri Terzi e Riccardi in primis) e dal Parlamento italiano.
Sperando vivamente di poter suscitare una Sua replica, La saluto rinnovandoLe i miei più cordiali saluti
Giulio Maria Raffa
Allievo di Scienze politiche della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa
Grazie Giulio, molto interessante
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