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mercoledì 8 febbraio 2012

COSA PENSANO DI NOI GLI AFGANI

A oltre dieci anni dall'inizio del conflitto che determinò la fine dell'Afghanistan dei talebani, gli afgani pensano di essere stati ignorati dalla comunità internazionale nelle loro scelte e aspirazioni. Pensano di esser stati tenuti a margine di processi decisionali presi sula loro testa e credono che poco sia stato fatto in termini di sviluppo, stabilità e sicurezza. Ciò non di meno, temono che l'uscita di scena degli eserciti che occupano adesso il suolo afgano possa nuovamente precipitare il Paese nel caos e, al contempo, paventano che l'abbandono dell'opzione militare si trasformi in un abbandono definivo dell'Afghanistan e della sua gente.

E' quanto emerge con crudezza da Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, una ricerca condotta, per conto della Organizzazione non governativa italiana Intersos, da Giuliano Battiston, giornalista e saggista con una lunga esperienza nel Paese dell'Hindukush. Battiston ha messo insieme lavori precedenti al suo, ricerche e sondaggi, incrociando il lavoro di ricerca in biblioteca con una lunga permanenza sul campo nella regione sotto comando italiano, il Regional Command West. Ne esce un quadro in parte già noto e in parte inedito. Comunque sconfortante e che dimostra che, al di là della propaganda, gli afgani hanno sempre meno fiducia nei loro “salvatori”, pur se preferiscono al caos una loro più prolungata permanenza, anche oltre il 2014, data finale per il ritiro delle truppe straniere.

Battiston spiega che il dato più evidente che emerge dalla ricerca è “uno scollamento tra le opinioni espresse ufficialmente dai rappresentanti delle cancellerie occidentali e quelle degli afghani”. I primi sostengono di aver stabilizzato il Paese, i secondi dichiarano al contrario che la comunità internazionale ha “fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione” senza produrre “i risultati sperati”. Quei pochi “risultano fragili e temporanei”, percezione che si traduce in un “sentimento molto diffuso di sfiducia verso le forze internazionali, anche tra coloro che gli avevano accordato credito all’inizio dell’intervento militare, nel 2001”. Diffusa poi la convinzione che le attività militari siano state “negativamente condizionate dalla pluralità di orientamenti, di tattiche, agende e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti”. Molti lamentano inoltre uno squilibrio “tra i fondi allocati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali” e rivendicano “un maggiore coinvolgimento nella progettazione, nella realizzazione e nel mantenimento dei progetti, giudicati comunque insufficienti”. Per gli afgani infatti, “sicurezza” è anche “autosufficienza e sostenibilità del sistema economico; piani di ripristino di un quadro istituzionale funzionante e trasparente; strategie per edificare un sistema di diritto efficiente, garanzia di giustizia, uguaglianza e di tutela dagli abusi”. Un tema che ritorna quando alcuni degli intervistati spiegano al ricercatore che “la rivendicazione di giustizia per i crimini passati” non deve essere “subordinata del tutto alla ricerca della pace”. Un chiaro no, insomma, all'impunità.

Alle forze internazionali viene anche imputata una scarsa considerazione delle conseguenze che le loro operazioni hanno sulla popolazione civile: “l’incapacità di distinguere i civili innocenti dai “ribelli”, l’uso indiscriminato di bombardamenti e raid notturni, la violazione degli spazi domestici” messe in atto da soldati che sembrano agire “ fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta” il che ha fatto crescere sfiducia e diffidenza nei loro confronti, “insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere o difendere i propri obiettivi strategici” anche se “la maggior parte degli intervistati ritiene che non vadano ritirati e che, anzi, debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014” (Vedi la sintesi dell'ultimo rapporto Onu sulle vittime civili) .

E la pace possibile? Pur sottolineando l’inefficacia della soluzione militare, gli afgani “sostengono la via della riconciliazione (e) della soluzione politico-diplomatica, e ritengono che escludere a priori ogni ipotesi negoziale significhi condannare il paese a un conflitto permanente”. Ma le idee a riguardo restano abbastanza vaghe e confuse anche fra gli afgani, spiega Battiston. Come forse lo sono, aggiungiamo noi, anche nelle nostre teste.

Anche su Il Fatto Online

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