Musulmano,
pashtun, non violento e pacifista. Profilo del leader delle 100mila
“camice rosse” disarmate che volevano l'indipendenza del Raj
britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e
senza dividere l'India. Un simbolo allora nel mirino della polizia
coloniale e adesso dei talebani
Negli
anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell'Indian
National Congress
di accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj
britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un
parto gemellare che faceva della Perla d'oriente della corona i due
stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e
risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario
alla Partition, la commentò così rivolgendosi all'Inc che non lo
aveva nemmeno consultato: «Ci
avete gettato in pasto ai lupi».
Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi.
Abdul
Ghaffar Khan era un leader politico della Provincia più occidentale
dell'Impero, al confine con l'Afghanistan. Era un musulmano convinto
e convinto che l'islam fosse una religione di pace. Ed era un
pukthun,
membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all'agricoltura
e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand,
delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathan
in quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun,
come vengono chiamati in Afghanistan.
Pukhtun,
pathan, pashtun
La
storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da
antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque
definitivamente separata alla fine dell'Ottocento anche se ha
conservato un'unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in
parte perché la “guerra afgana” si combatta in realtà
soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C'è
molto dunque che lega il passato al presente. E c'è un episodio
recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno
dei suoi principali protagonisti.
Il
20 gennaio di quest'anno, un gruppo di guerriglieri talebani
(talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera)
fa irruzione nell'università Bacha Khan di Charsadda nella provincia
di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre
corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha
Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, nato nel 1890 e deceduto
il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l'Urss).
Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le
armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati
dell'Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi
a mettere in relazione l'assalto con la cerimonia. Eppure la scelta
appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto
anche il Gandhi della Frontiera?
Non
violento e pacifista
Bacha Khan con Gandhi. Si alleò col Congresso ma fu contrarissimo allla divisione del Raj . Sopra a sn la "Durand Line" disegnata dai britannici |
La
scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardian
che «...la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel
pashtunwali
- il codice etico dei pashtun - e nell'Islam» e che il successo
della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui
pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce
un nesso evidente tra l'attacco di musulmani violenti a una scuola
intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma
politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta,
contagerà l'intera provincia patana e metterà in seria difficoltà
gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha
ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un
movimento nonviolento denominato Khudai
Khidmatgar,
“i servi di Dio”. Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti
(tra loro anche donne ndr),
era dedito alla riforma sociale e a porre fine al regime britannico
con mezzi nonviolenti...fu per molti anni un fedele compagno di lotta
di Gandhi... e ancora oggi viene ricordato come il “Gandhi della
frontiera”. Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una
distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano
considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni
politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul
Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più
di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson
«...l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta
l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera
nord-occidentale... gli appartenenti a queste tribù, noti per le
loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un
programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide
familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del
Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I
britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una
barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in
India».
La
nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia
del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso
un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune
concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile
regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe
in “The Pathans”, questa gente «...non
era pronta per quel che a livello popolare era chiamato governo
responsabile»
e che avrebbe dovuto dare (in parte) l'India agli indiani con la
riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l'anno dopo, doveva
trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull'autogoverno.
Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati
non eletti ma “nominati”. E di fatto la provincia della Frontiera
del NordOvest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva
servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme
potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in
quell'area remota così che si formò un'organizzazione politica in
cui emersero due personaggi noti come i “fratelli Khan”: Khan
Sahib, un medico che aveva sposato un'inglese e lavorava per
l'Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan.
Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il
governo coloniale, il secondo capiva l'inglese ma non lo parlava così
come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d'importazione. Un
vero pathan dall'eloquio affascinante che finì per conquistare –
si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti.
Una
terra per tutti: il Pashtunistan
Le terre patane o pashtun tra Afghanistan e Pakistan. Un fantasma ancora presente |
Bacha
Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento “Khilafat” (in
difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di
Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell'India su
basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche
al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami).
Ma quando diventa chiaro che la Partition
è inevitabile, Bacha Khan lavora all'idea che le terre dei
pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan
indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l'idea del
Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla
riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai
possidenti terrieri. E quando crea i Khudai
Khidmatgar
- detti anche
surkh poshan
o camice rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto
del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici
lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in
esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale
e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan
(che dopo il '47 metterà fuori legge le camice rosse). La
repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene
arrestato, un'enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani
Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La
mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si
rifiutano di sparare.
Dentro
e fuori dal suo Paese (è a Jalalabd in Afghanistan che si
svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo
stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso
dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello
stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i
talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citava
per corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in
modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano
e' colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e
lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio.
La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori
di Charsadda non lo hanno dimenticato.
"
Per
saperne di più:
Leggere:
Eknath Easwaran, Badshah
Khan, il Gandhi musulmano,
trad. Lorenzo Armando, Sonda, Torino 1990 pp. 250
Vedere:
Teri C. McLuhan, Frontier
Gandhi Badshah Khan a torch for peace (Canada)
2009
Questo articolo è uscito sul quotidiano il manifesto
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