Tutte
le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa
nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi,
e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare
nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir
far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne
l'imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene
all'intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se
integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un
Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma
non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di
relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi
vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se
questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri
valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita,
saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno
può chiederci l'integrazione in quella società. Vale anche in un
Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma
nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del
pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male.
Nella
convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata
del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li
condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non
essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre
società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere
ma mantenendo le distanze. L'integrazione è solo una bella favola e
non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la
realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole
oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo
senza frontiere, in cui l'identità non sia una vessillo ma solo una
delle tante risorse, è quello di un'integrazione possibile basata
sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere,
per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è
accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico
indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo "provincializzare
l'Europa", renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà
è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri.
Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad
assomigliare a loro.
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