Arthur Conolly: finì ucciso dall'emiro di Bukhara |
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Com’è noto la locuzione “Grande Gioco” - Great Game – si deve al britannico Arthur Conolly. Era uno dei tanti esploratori, diplomatici, spie al servizio di Sua Maestà britannica e aveva dato questo nome all’intrigo che dal 1800 aveva opposto soprattutto britannici e russi, ma anche francesi, persiani, afgani, circassi o turcmeni, che durante due secoli si erano combattuti, spiati, alleati e traditi in vista della grande posta in gioco: la conquista, o la conservazione della conquista, dell’India e, in molti casi, della propria indipendenza dalle mire russe o britanniche in Asia. Quello che in tempi recenti è stato chiamato Nuovo Grande Gioco sembra assomigliare alla primigenia edizione, benché la posta in gioco sia ovviamente mutata e così le tecniche per raggiungerla, ma mai come oggi sembra più appropriato il termine che aveva scelto un ministro dello Zar per descrivere quella guerra prolungata e non sempre guerreggiata senza esclusione di colpi: torneo delle ombre. Oggi come allora si agitano infatti, sullo sfondo del conflitto afgano, delle violenze in Pakistan, dei sommovimenti nel Caucaso, in Tagikistan, in Uzbekistan o nel Turkestan cinese, protagonisti e comprimari spesso in ombra assai più che tra l’800 e il 900. Sicuramente il campo di battaglia primario resta l’Afghanistan, ed è su questo campo di battaglia che porremo la nostra attenzione ma senza dimenticare le ombre che lo circondano. Metteremo assieme qualche idea e molte domande senza aver la pretesa di indicare risposte ma cercando di mettere in fila alcuni interrogativi che, oggi come allora, coinvolgono le grandi potenze regionali, gli Stati confinanti dal Caspio alla Cina, e le superpotenze che, adesso come un tempo, sono interessate al controllo di questo pietroso Paese senza sbocco al mare, quasi privo di gas e petrolio e con ricchezze minerarie ancora poco esplorate e comunque di difficile estrazione. Porremo la nostra attenzione soprattutto sull’Afghanistan per un semplicissimo motivo: la guerra – o la stagione di conflitto perenne iniziata con l’invasione sovietica del 1979 (quasi quarant’anni fa) – è ben lungi dall’esser terminata e assiste anzi a una ripresa che, solo in termini di vite umane, è diventata più esigente da quando la missione Isaf Nato si è ritirata – sostituita dalla più mite missione dell’Alleanza “Resolute Support” – nel dicembre 2014. Il fatto che la guerra afgana sia uscita dai riflettori della cronaca è solo – se mai ce ne fosse bisogno – l’indicazione che – per citare un vecchio adagio pacifista – la prima vittima della guerra è la verità. La guerra infatti non è affatto finita e gode anzi – ci si perdoni l’iperbole - di ottima salute.
Attori, comprimari, obiettivi
Non è difficile elencare i motivi per i quali l’Afghanistan desta interesse o apprensione e si presta ad essere un terreno di gioco più o meno eterodiretto. E’ facile comprenderlo per gli Stati confinanti.
La Nato ha appena deciso che la sua missione andrà oltre il 2016 con circa 1200 uomini |
La presenza di una guerriglia islamista di lunga esperienza militare e i santuari alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan restano un elemento di preoccupazione seria per la Cina e i Paesi centroasiatici confinanti: temono non solo il contagio ma l’esistenza di una retrovia logistica in grado di ospitare i combattenti (i casi più evidenti sono quelli uzbeco e uiguro) che non solo sfuggono così alla cattura ma possono riorganizzare le proprie fila soprattutto nei territori a cavallo della Durand Line, il poroso confine tra i due Paesi. Ciò è vero anche per realtà geograficamente non confinanti come Azerbaijan o Cecenia e la stessa Russia.
Per Iran e Pakistan l’Afghanistan è una sorta di retrovia strategico in caso di guerra con un nemico vicino (l’India nel caso pachistano) o lontano (gli Stati Uniti nel caso iraniano). Per Teheran e Islamabad è dunque vitale avere un governo amico o comunque il controllo di rapide vie d’accesso e di gruppi armati (più o meno talebani) fedeli a Teheran o Islamabad da utilizzare in caso di necessità.
Gli americani hanno un interesse geostrategico che attualmente significa avere il controllo di una decina di basi aeree nel Paese e il controllo totale della grande base di Bagram. Fondamentali in caso di guerra con l’Iran e persino in vista di un conflitto con la Russia. Infine per gli Stati Uniti una sconfitta totale del governo di Kabul aumenterebbe, oltre che il pericolo islamista, la sempre più scarsa fiducia nelle recenti operazioni di esportazione della democrazia o, se si vuole, del modello americano. C’è infine un elemento di puntiglio nazionale essendo stata Washington a innescare l’ultima guerra afgana nel 2001.
Gli europei sembrano più che altro seguire le indicazioni americane e non hanno una politica chiara nei confronti di un Paese verso il quale si sentono comunque in debito, motivo per il quale gli aiuti si sono ridotti ma non spenti e resta una presenza militare significativa anche se assai ridotta (l’Italia per esempio è passata da 4mila a 800 soldati). Non manca qualche appetito economico in campo energetico, gestibile in futuro se il Paese si stabilizza.
L’Arabia saudita e i Paesi del Golfo giocano un ruolo defilato ma abbastanza rilevante. I primi hanno sostenuto i talebani e non sono forse estranei alle azioni di Daesh. I secondi sono la banca per eccellenza degli affari leciti e illeciti afgani. Entrambi giocano un ruolo nel processo di pace: i sauditi hanno promosso in passato diversi incontri ritagliandosi un protagonismo evidente che poi è stato, in un certo senso e almeno all’apparenza, passato in gestione agli emirati del Golfo, Qatar in primo luogo: ospita un ufficio politico dei talebani anche se di fatto non funziona. La politica saudita è in questo momento una delle ombre più consistenti e inquietanti e potrebbe essere interessata a un rinvio del processo di stabilizzazione per conservare una carta afgana da giocare su altri tavoli. Qual è la sua agenda e come la gestisce con gli altri Paesi del Golfo con cui è a volte (vedi proprio il caso Qatar) in competizione?
La Russia ha un ovvio interesse strategico, un’evidente preoccupazione per le spinte islamiste e il traffico di oppiacei, un interesse difensivo nei confronti dell’epansionismo americano, un interesse espansivo – com’è sua tradizione in questa fetta di mondo. Infine ha bisogno di far dimenticare il suo passato in quest’area. La turbolenza alle frontiere afgane in realtà le sta fornendo in questo momento due carte da giocare e già giocate: il rafforzamento del sistema difensivo alle frontiere meridionali dei Paesi dell’Asia centrale confinanti con l’Afghanistan, con le quali esiste un patto militare di cui abbiamo visto gli effetti all’inizio del 2016 durante la battaglia di Kunduz (nota per l’incidente all’ospedale di Msf), quando il dispositivo difensivo ai confini è stato rafforzato con evidenza dall’apparato militare russo. Infine, come nella miglior tradizione del torneo delle ombre, Mosca è riuscita a convincere gli afgani – che fino a ieri ritenevano i russi nemici per eccellenza - ad accettare aiuti militari seppur simbolici. Criticando ferocemente gli errori della Nato, Mosca è anche riuscita ad avere buona stampa sui giornali locali e le sue azioni sono in risalita. Può presumibilmente contare sull'appoggio iraniano – suo alleato sul fronte siriano - per rientrare nella partita.
Chi ha interesse nel processo di pace? I grandi giocatori
Visto così il quadro sembrerebbe presentare un univoco desiderio di portare governo e guerriglia al tavolo negoziale. Chi lo sta facendo?
I pachistani sembrano impegnati a convincere i talebani afgani a cedere ma hanno venduto la pelle dell’orso troppo presto e dimostrato così di non avere affatto il controllo sulla guerriglia che la vulgata attribuisce loro. Sembra di capire che la morte di mullah Omar – rivelata nell’agosto 2015 – avesse aperto uno spiraglio con la nomina di mullah Mansur, suo ex braccio destro, a capo della guerriglia e con la scelta di Islamabad di cambiare strategia. Ritenuto un uomo del Pakistan, il nuovo capo ha però dovuto far fronte a una rivolta interna e alla nascita di Daesh. Se Daesh resta un problema relativo, la rivolta interna non lo era. Una lettura possibile è che Mansur, per serrare i ranghi, sia stato meno docile ai richiami di Islamabad e abbia anzi dato il via a una campagna militare senza esclusione di colpi proprio per fugare la fama di venduto ai pachistani. La sua uccisione nel maggio 2016 per mano americana, con un drone che per la prima volta ha colpito nella regione pachistana del Belucistan (fino ad allora per convenzione off limits), ha sparigliato tutti i giochi. Mullah Haibatullah Akhundzada, che lo ha subito sostituito, ha promesso vendetta e una nuova campagna militare che ha fatto infuriare gli afgani e seppellito il negoziato ma anche le strategie di Islamabad.
Il classico di Peter Hopkirk |
L’ultimo grande attore – ma il maggiore per importanza e peso politico militare - sono gli stati Uniti ma la loro politica appare davvero poco chiara e ondivaga. Washington è stata una paladina del disimpegno militare ma poi ha rafforzato il suo dispositivo di sicurezza nel Paese rallentandone i tempi. Non ha mai preso in considerazione un passo indietro sulle basi e nemmeno enucleato la possibilità – anche solo congetturale - di andarsene dall’Afghanistan, precondizione dei talebani per trattare con Kabul. Infine sta continuando una politica di uccisioni mirate con i droni sia in Pakistan sia in Afghanistan. E una di queste vittime è stata appunto mullah Mansur, il possibile negoziatore della pace.
Levico Terme, 8 luglio 2016
La guerra in Afghanistan tra vecchi e nuovi attori. Relazione di Emanuele Giordana al convegno: SGUARDI SULLA REGIONE DEL CASPIO E L'ASIA CENTRALE
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