Samarcanda, piazza Registan. Sotto una mappa dell'Uzbekistan |
I Paesi dell’Asia centrale hanno un’antica tradizione islamica ma è solo l’Uzbekistan il Paese che potrebbe temere, a ragione, la pressione dei gruppi radicali armati. Naturalmente, come altrove, i conflitti in Afghanistan/Pakistan e nel vicino Caucaso settentrionale – e così la più recente guerra siriana e, a suo tempo, la guerra in Iraq - sono stati il motore di un revivalismo radicale che sembra aver assecondato la diffusione di movimenti salafiti e wahabiti e infine la partenza di foreign fighter verso l'estero per aderire alle brigate islamiche internazionali in vari Paesi. A volte i numeri hanno una certa rilevanza ma il fenomeno sembra abbastanza ridotto. L’Uzbekistan è un caso a parte: l’obiettivo del governo è sempre stato quello di far terra bruciata attorno al Movimento islamico dell'Uzbekistan (Mui), al punto che si era arrivati a proporre ai talebani, agli inizi del 2001, persino un riconoscimento dell’Emirato in cambio dell'espulsione dei militanti Mui dall'Afghanistan. Creato nel 1998 con l’obiettivo di rovesciare il regime e instaurare una forma di governo conforme alle leggi islamiche, il Mui si è alleato con i Talebani e Al Qaeda. Nel 2015 ha espresso fedeltà al Califfato di Al-Bagdadi creando una spaccatura tra i suoi membri, molti dei quali non hanno aderito alla svolta. I suoi combattenti sono attivi soprattutto in Pakistan. Oltre 1500 uzbechi militerebbero all’estero in gruppi come il Mui o la Jamaat Imam Bukhari. Lontano però dai confini russi.
Se all’epoca sovietica il controllo su moschee e madrase era ferreo, le cose cambiano con la “liberazione” dal tallone di Mosca ma l’enfasi sul nazionalismo e un ambiguo atteggiamento verso la religione intesa soprattutto come stampella del potere, hanno finito per rivitalizzare l’islam centroasiatico favorendo la nascita di sezioni locali anche di movimenti transnazionali islamici. La risposta dei governi è stata soprattutto repressiva e con la tendenza a fare di ogni erba un fascio senza grandi distinzioni. Secondo diversi analisti le preoccupazioni che riguardano la sicurezza sono in realtà da leggersi, in molti casi, in chiave interna: preoccupazioni insomma che derivano più da un timore per la stabilità dei governi – in una situazione di povertà crescente per la crisi del greggio e del rublo e per l’incertezza nella successione interna delle leve di potere - che non per la paura reale di un contagio o di un'espansione dell’islamismo esogeno armato. In sostanza i Paesi centroasiatici avrebbero cioè utilizzato e utilizzerebbero il “pericolo jihadista” anche per contenere le spinte dal basso che possano mettere in difficoltà (come già avvenuto in passato) il sistema di potere locale. Lo stesso per il narcotraffico, attività economica sotto traccia che consente il transito di oppio e oppiacei prodotti in Afghanistan anche se, scrivono i due ricercatori C. Bleuer e S. Kazemi, «Il rischio in termini di sicurezza che lega l’Afghanistan alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale viene di frequente altamente esagerato e così il presunto collegamento tra narcotraffico e gruppi radicali islamisti. In realtà in tutta l’Asia Centrale i principali attori del narcotraffico sono impiegati governativi, agenti della sicurezza e personaggi legati alla mafia…». Anche qui c’è ovviamente uno zampino dei russi, destinatari dell’eroina afgana. Naturalmente un rischio islamista, benché sovrastimato, esiste ma, avvertono gli studiosi, in quest’area si fa più affidamento alla repressione che al dialogo. Un metodo che in Asia Centrale hanno imparato da Mosca.
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