Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

venerdì 15 dicembre 2017

Colpirne uno per educarne cento

Non sono stati 400 i morti dell’ultimo pogrom scatenato in Myanmar contro la minoranza musulmana dei Rohingya. In un mese, dal 25 agosto al 24 settembre 2017, sono morte per cause violente nello Stato birmano del Rakhine, almeno 6.700 persone tra cui 730 bambini al di sotto dei 5 anni. Dei 9mila morti stimati (per difetto) durante l’esodo verso il vicino Bangladesh, molti sono probabilmente stati uccisi dalla fame e dalle malattie ma oltre 6mila – e cioè uno ogni cento per i 647mila fuggiti oltre confine – sono stati vittime di violenza. Lo dice un rapporto-indagine di Medici senza frontiere, una Ong che ha seguito la vicenda rohingya anche quando non era esplosa in tutta la sua brutalità.
Secondo le stime più prudenti, dice Msf, dei 9mila decessi accertati, nel 71.7% dei casi la causa della morte è legata direttamente alla violenza e in un solo mese 6.700 tra uomini e donne hanno perso la vita colpiti da armi da fuoco (69% dei casi negli adulti; 59% nei bambini), bruciati vivi nelle loro case (9% negli adulti; 15% nei bambini), per violenti percosse (5% negli adulti; 7% nei bambini) e a causa dell’esplosione di mine (2% nei bambini).

E’ un quadro ancora più oscuro rispetto a quanto sapevamo anche perché viene documentato da un’organizzazione umanitaria neutrale e che ha ricavato i numeri del dramma – per il quale sono già stati usati i termini genocidio, pulizia etnica, apartheid – da migliaia di interviste, racconto di una fuga imposta da incendi, stupri e, come ora sappiamo, da una ritorsione che aveva evidentemente lo scopo di fare piazza pulita e spingere chi partiva a non fare più ritorno. Ed è in questo quadro oscuro che, entro la fine di gennaio, dovrebbe ricominciare il rimpatrio dei profughi rohingya, secondo un accordo firmato tra il governo di Dacca e quello birmano. Accordo su un ritorno impossibile come hanno già certificato Amnesty International e Human Rights Watch e su cui ora anche Msf esprime dubbi: la firma di un accordo per il ritorno dei Rohingya tra i governi di Myanmar e Bangladesh è stata prematura, dicono i Medici senza frontiere, perché i profughi non possono essere costretti a ritornare in Myanmar e la loro sicurezza e i loro diritti devono essere garantiti prima che qualsiasi piano di rientro venga preso seriamente in considerazione.

Intanto anche la Croce Rossa fa il punto della situazione dall’altra parte della frontiera e cioè sul luogo del futuro rimpatrio. Dominik Stillhart, che dirige le operazioni nel Rakhine del Comitato internazionale (Icrc) – una delle poche agenzie internazionali autorizzate – sostiene che la tensione tra i pochi musulmani ancora residenti e la maggioranza buddista è ancora molto alta così che l’aspetto del Rakhine, nelle zone rohingya, è simile a quello di un paesaggio senza vita: tensione elevata, paura e negozi chiusi in una situazione normalizzata. «La situazione nel Rakhine settentrionale si è definitivamente stabilizzata, ci sono incidenti molto sporadici, ma le tensioni sono enormi tra le comunità» dice l’inviata di Icrc. Una situazione normalizzata per gli ormai solo 180mila rohingya rimasti in Myanmar a fronte di una stragrande maggioranza che ha cercato salvezza in Bangladesh da un Paese dove vivevano oltre un milione di Rohingya e che ora ne vede solo un sesto rimanere nel paese accanto a un gruppo di sfollati dalle precedenti operazioni militari e rinchiusi in campi profughi.

L’ultima di queste operazioni, la più violenta, è iniziata dopo l’attacco che il gruppo armato di difesa dei Rohingya (Arsa) aveva compiuto contro obiettivi militari in agosto. Accusato di terrorismo, il gruppo è stato oggetto di una caccia all’uomo che è però servita ad allestire un esodo di massa della piccola comunità musulmana. Tutto ormai documenta che non fu un semplice caso di paura diffusa ma il frutto di un’operazione determinata a cacciare per sempre chi viene definito “bengalese immigrato”. La comunità internazionale non ha fatto molto se non col ricorso a misure deboli e di facciata. In prima linea in difesa dei Rohingya si è schierata l’Onu, le associazioni della società civile e papa Francesco. Ma per ora tutto quel che ne è uscito è un accordo per il rientro su cui gravano troppi dubbi. Rafforzati oggi dai numeri terribili documentati da Msf.


Nessun commento: