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venerdì 14 settembre 2018

Aung San Suu Kyi. Un'altra occasione perduta

La questione rohingya? Avremmo potuto gestirla meglio. I due reporter della Reuters condannati a sette anni di galera perché investigavano su una fossa comune nei villaggi della minoranza musulmana? Verdetto corretto perché i reporter hanno violato la legge. Aung San Suu Kyi, la Nobel de facto premier del Myanmar, perde un’altra occasione non solo per condannare i misfatti del “suo” esercito – che l’Onu vorrebbe inquisito per genocidio – ma per difenderne l’operato, così come quello della corte birmana che dieci giorni fa ha condannato Wa Lone e Kyaw Soe Oo per aver avuto tra le mani “documenti segreti” – consegnati in un appuntamento trappola con un finto poliziotto pentito - che potevano mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato. Lo scenario questa volta è Hanoi, dove si svolge il World Economic Forum dell’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico. E’ un palcoscenico amico e Suu Kyi lo sa: nell’Asean vige l’imperativo della “non ingerenza” e dunque, a parte le antipatie delle musulmane Malaysia e Indonesia, nessuno la tira per l’elegante giacchetta che è ormai rimasta la sua unica cifra.

La notizia fa rapidamente il giro del mondo soprattutto per la vicenda dei due giornalisti che hanno,
dice la Nobel, “violato l’Official Secrets Act”, una legge che prevede fino a 14 anni di pena. Insomma, giudicati non in quanto giornalisti – ribadisce Suu Kyi – ma semplicemente perché hanno violato la legge. E in fondo, deve aver pensato la Nobel dopo tutte le reazioni suscitate nei Paesi occidentali - oggi ex amici -, la corte è stata addirittura magnanima comminando solo la metà della pena. Anche se, a rigor di logica giudiziaria, non avrebbero neppure commesso il fatto visto che si era trattato di un trappolone e i due giornalisti non hanno avuto il tempo nemmeno di leggere una sola riga dei documenti consegnati. Ma ciò che forse più colpisce è il tono che Suu Kyi utilizza sull’intera vicenda della minoranza musulmana e indocumentata del Myanmar, espulsa nel giro di un paio di mesi nel numero di oltre 700mila profughi che si lasciano alle spalle violenze, incendi e stupri. "Ci sono naturalmente cose – dice la Nobel – per cui noi, col senno di poi, potremmo pensare che la situazione avrebbe potuto essere gestita meglio”. “Ma crediamo – aggiunge subito dopo - che per motivi di stabilità e sicurezza di lungo periodo dovevamo essere imparziali da tutti i lati ... noi non possiamo scegliere chi deve essere protetto dallo stato di diritto ". Per dire, in sostanza, che poiché nello stato del Rakhine vivono anche altre minoranze etnico-religiose, sarebbe apparso parziale proteggere “solo” i Rohingya. Gli unici a essere espulsi. Più che imbarazzante.

Se c’è chi si indigna, c’è anche chi sorride. Non tanto il silenzio assenso dell’Asean ma il grande Impero di Mezzo in primis. E poi Mosca che, con Pechino, annacqua tutto quanto si discute in proposito al Consiglio di sicurezza. Con loro anche la democrazia più popolosa del pianeta che ha capitale a Delhi e ha già minacciato di espellere dall’Unione 40mila rohingya.

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