La Camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi) - la corte che deve giudicare
l’ammissibilità delle richieste di indagine del procuratore generale dell'Aja - ha respinto oggi all'unanimità la sua richiesta di procedere con un'indagine su presunti crimini contro l'umanità e crimini di guerra sul territorio della Repubblica islamica dell'Afghanistan. I giudici – recita un comunicato della Cpi - hanno deciso che “un'indagine sulla situazione in Afghanistan in questa fase non servirebbe gli interessi della giustizia”. Solo poco più avanti, in una riga, il comunicato spiega esattamente perché: La Camera infatti “ha accuratamente controllato le informazioni fornite dal Procuratore e ha ritenuto che la richiesta stabilisse una base ragionevole per considerare che reati… sono stati commessi in Afghanistan e che i potenziali casi sarebbero ammissibili dinanzi alla Corte. Tuttavia la Camera ha rilevato il tempo trascorso dall'apertura dell'esame preliminare nel 2006 e la situazione politica in Afghanistan da allora in poi, la mancanza di cooperazione che il procuratore ha ricevuto… (stimando che ) ostacoli la possibilità di indagini e procedimenti giudiziari di successo”. Eccola la parola: cooperazione. Gli Stati Uniti infatti hanno negato i visti di ingresso agli investigatori del Cpi, di cui non riconoscono l’autorità, e di conseguenza i magistrati che devono dare luce verde al procuratore non possono concedere che si proceda a indagare su un Paese agli archivi del quale non si può accedere. Se anche Kabul non negasse l’ingresso alla signora Bensouda (la procuratrice generale) e ai suoi aiutanti, l’indagine sarebbe monca se lo Stato su cui si indaga (gli Stati Uniti) non collabora.
“Di conseguenza – scrivono i magistrati - è improbabile che il proseguimento di un'indagine porti al raggiungimento degli obiettivi elencati dalle vittime… La Camera ha quindi concluso che un'indagine sulla situazione in Afghanistan in questa fase non servirebbe gli interessi della giustizia e ha respinto la richiesta di autorizzazione del Procuratore di indagare”. La storia inizia un anno e mezzo fa: il 20 novembre 2017, il procuratore chiede l'autorizzazione dei giudici preliminari per avviare un'indagine sui presunti crimini di guerra e crimini contro l'umanità in relazione al conflitto armato in Afghanistan dal 1 ° maggio 2003. La Camera preliminare stabilisce che vi sia una “base ragionevole” per procedere e consente alla Procura di avviare i primi passi dell’indagine. Ma Washington si mette di mezzo. Prima minaccia, poi – qualche giorno fa – stabilisce che Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte penale internazionale, non può ottenere il visto d’ingresso negli Usa. Il segretario di Stato Mike Pompeo già 15 marzo aveva sostenuto che il lavoro della Corte è un «attacco allo stato di diritto americano», minacciando di negare il visto ai suoi membri se avessero proseguito le ricerche su eventuali crimini commessi in Afghanistan da soldati e funzionari statunitensi o alleati. La parola è stata mantenuta e la Corte non poteva che prenderne atto.
Ciò getta una luce oscura non solo sul lavoro della Cpi in Afghanistan ma anche su altri casi sensibili come quello che riguarda i rohingya del Myanmar sui quali Bensouda ha chiesto di indagare. Il governo birmano però rifiuta di collaborare e dunque difficilmente gli investigatori potranno andare nel Rakhine o nella capitale per vedere coi propri occhi e leggere le carte. C’è un elemento di tristezza in più: se si scorrono i casi su cui la Procura indaga si tratta soprattutto di Paesi africani. Se si toccano i paladini dei diritti umani (come gli Usa sono stati nel caso delle donne afgane) allora però indagare non si può. Son cose solo per dittatori africani come al Bashir che, arrestato dalla giunta che ora guida Khartum, potrebbe magari anche essere consegnato all’Aja. Per lui la giustizia internazionale può funzionare. Per Washington no.
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