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venerdì 27 settembre 2019

Elezioni afgane: il rapporto Ispi



E' online da ieri il nuovo rapporto dell'Ispi dedicato alle imminenti elezioni afgane. Curato da Giuliano Battiston e Nicola Missaglia, contiene saggi di Foschini, Giustozzi, Bertolotti e  Carati e un mio contributo su "La scomoda eredità del Governo di unità nazionale" che qui riproduco.


L'intero dossier si può leggere qui 


E’ abbastanza incredibile che, a un pugno di giorni dalle elezioni, sia stato l’alleato più importante del governo a lanciargli l’accusa più grave: lo ha fatto il segretario di Stato americano Pompeo che ha in sostanza cancellato 160 milioni di dollari promessi a un esecutivo sotto accusa per incapacità e scarsa trasparenza. Accuse gravi ma solo le ultime di una lunga serie.
Nasce infatti sotto una cattiva stella il Governo di unità nazionale (National Unity Government – Nug) che vede la luce nell’estate del 2014 dopo uno scontro feroce tra i due concorrenti alla presidenza Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Cattiva stella certificata anche dalla missione di osservazione elettorale della Ue che definisce le presidenziali del 2014 un "disastro". La tornata elettorale si è svolta in due tempi tra aprile e giugno, scandita da reciproche accuse di brogli. L’impasse è segnata dal ritardo con cui si arriva al conteggio dei voti in luglio, ritardo che rischia di paralizzare e ultrapolarizzare il Paese.

A sbrogliare la matassa arriva il segretario di Stato americano John Kerry, un abile mediatore che riesce a negoziare con i due contendenti un accordo per formare un governo di unità nazionale basato su una condivisione dei poteri e metà, con l’attribuzione della presidenza a Ghani e la creazione di una posizione per Abdullah non prevista dalla Costituzione: quella di Chief Executive, una sorta di copresidenza o di premierato con ampi poteri. Il Nug nasce quindi non solo sotto il segno della rivalità (che prende anche connotati etnici) ma anche con il marchio di fabbrica di un protettore internazionale in grado di far quadrare i conti. Per i Talebani, ma anche per molti afgani, è la conferma che l’indipendenza e l’autonomia del governo, già minato dal fatto che l’Afghanistan è un Paese sotto occupazione militare, resteranno una chimera.

Lo scontro tra due galli nel medesimo pollaio sarà una costante della vita repubblicana con punte di massima tensione o di minor intensità e che vedrà una sostanziale diminuzione solo con l’avvio dei negoziati tra americani e Talebani e dunque una sostanziale unità di vedute sulla posizione che il governo di Kabul (escluso dai colloqui) deve tenere. Ma è solo una tregua. La guerra tra i due riprenderà con vigore appena si ricomincerà a parlare di elezioni. Non è solo uno scontro di personalità: c’è anche una querelle tra chi vuole mantenere un sistema presidenziale spinto come l’attuale e chi vuole introdurre formalmente il ruolo di primo ministro.

Nell’aprile del 2017, International Crisis Group, pubblica una radiografia impietosa dei primi due anni e mezzo del Nug: “... il futuro del governo di unità nazionale è traballante... marcato da disaccordi interni e discordia... L'unica via d’uscita sarebbe che i due protagonisti riconoscessero che la stabilità del governo e del Paese richiede loro di lavorare insieme”. Nonostante le tensioni politiche e i problemi legati alla sicurezza (una costante esacerbatasi nel periodo pre elettorale e durante il negoziato coi talebani), Icg riconosceva però che erano stati compiuti “alcuni progressi nella stabilizzazione dell'economia: le riforme fiscali e un controllo più stretto sulla riscossione delle imposte hanno aumentato le entrate nazionali. Tuttavia, la crescita sostenibile richiede maggiore sicurezza, stabilità politica e progressi nella lotta alla corruzione (i cui sforzi per ridurla) sono fortemente contrastati da reti resilienti all'interno e all'esterno del governo. Altre riforme vitali, in particolare del sistema elettorale e delle istituzioni, sono state ostacolate – scriveva Icg - dal rapporto travagliato tra esecutivo e legislativo che contribuisce alla disfunzione governativa”. Un travaglio mai terminato.

Il punto viene fatto nuovamente alla Conferenza di Ginevra sull’Afghanistan del novembre 2018, un anno e mezzo dopo. Secondo la relazione sullo stato di avanzamento della strategia nazionale di sviluppo preparato dal ministero delle Finanze afgano per la Conferenza, alla fine di ottobre 2018 si stimava che il 38% dei risultati stabiliti fosse stato pienamente realizzato, con il 45% parzialmente raggiunto; che i settori con maggiori performance fossero stati quelli della riforma del settore della giustizia, delle riforme fiscali ed economiche, della crescita attraverso l'integrazione regionale, delle riforme del settore pubblico e dei servizi pubblici e nel settore della sicurezza. Il progetto di relazione finale sull'attuazione dei 24 indicatori concordati alla conferenza di Bruxelles del 2016 – riferivano i ricercatori di Afghanistan Analyst Network - mostrava però che, degli indicatori concordati allora, “solo 10 erano stati pienamente raggiunti, due erano ancora nella fase iniziale e i restanti 12 erano stati raggiunti solo parzialmente o in parti minori”.

Il percorso del governo bicefalo è dunque costellato di critiche in gran parte dovute alla paralisi degli apparati per via delle lotte intestine anche solo nella decisione di “chi va dove”. Un conflitto che si riflette in un calo dei consensi e in piccole e grandi schermaglie. La guerra sulle nomine dei governatori delle province ne è il manifesto più evidente. Il presidente Ashraf Ghani avrebbe potuto inaugurare una nuova era di "buoni" governatori – scrive nel 2016 una ricerca di Usip – ma la relazione complessa tra tecnocrate e uomo forte segnano le scelte che si devono a prerogativa presidenziale su cui, chiaramente, anche il Chief Executive vuole contare: “Il governo di coalizione è allo stesso tempo ingombrante e fragile” e le scelte dei governatorati saranno in relazione a “concorrenza, patrocinio, negoziato ed equilibri di potere all'interno di questa architettura. La ricerca di sopravvivenza del governo – scrive Usip - è critica e il controllo sui governatorati ne è la chiave”.

Tutta una serie di rilievi si trovano anche nei rapporti ciclici del Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction ) che risponde del maggior donatore, gli Stati Uniti, che amministrano dal 2002 una spesa di circa 132,49 miliardi di dollari per la ricostruzione (82,67 sicurezza; 34,45 governance e sviluppo; 3,69 aiuti umanitari; 11,68 settore civile). In particolare, nel suo ultimo rapporto al Congresso, l’ispettore generale John Sopko ha riassunto in una battuta le preoccupazioni sulla futura trasparenza del budget statale, largamente finanziato dai donatori esteri, qualora il disimpegno militare diminuisca e con lui la capacità di controllo sui conti: “Se venissero a mancare le condizioni e la volontà di proteggere il denaro fornito sotto forma di assistenza, crediamo che sarebbe come prendere tutti quei soldi a darli alle fiamme nel Massoud Circle” (una delle piazze principali della capitale). Il futuro, secondo Sigar, richiederebbe dunque “forti misure di trasparenza e controlli interni, nonché la supervisione delle misure e dei controlli stessi”. Un’ipoteca sul futuro che è al contempo una critica al passato, comprese le misure “anti corruzione” volute da Ghani ma violate, secondo i suoi detrattori, addirittura dal presidente stesso con formule clientelari più o meno dirette.

E se la gran parte dei candidati alla presidenza si è lamentata per l'insufficienza delle misure di sicurezza accusando di inefficienza sopratutto Ghani (il più esposto), la sua etica è stata invece messa in dubbio proprio dal suo partner rivale al governo: raccontano Ali Yawar Adili e Thomas Ruttig di come Ghani abbia fatto riferimento alla “Omarijustice", un modo di rivendicare la legittimità religiosa per la sua presidenza citando il secondo califfo dell'Islam. La chiosa di Abdullah non si è fatta attendere: “Oggi qualcuno ha detto che avrebbe sostenuto il concetto di giustizia di Omari… se la nostra gente pensasse che la giustizia Omari sarà come quella degli ultimi cinque anni, la loro fede ne sarà danneggiata”. Abdullah accusa il presidente di doppi standard nella lotta alla corruzione e di favoritismi anche a ministri e funzionari incriminati. Eppure nello stesso governo c’è anche lui…

Del resto nel tiro al piccione al presidente – prima incarnazione del Nug - non ci sono solo i partner avversari ma anche chi con Ghani ha lavorato come l'ex consigliere Abdul Ali Mohammadi che in un commento dal titolo "Gli impegni fittizi di Ghani" sostene che il presidente ha tradito il suo manifesto elettorale del 2014 che comprendeva 9 punti chiave: pace e stabilità, governance, donne, giovani e poveri, giustizia e partenariato, salute, economia, priorità speciali, politica estera e stabilità politica. Non ne avrebbe praticamente centrato nessuno. Un po’ troppo forse e una critica magari avvelenata da un allontanamento ma un segno di quel che il Nug si lascia alla spalle.

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