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giovedì 19 agosto 2021

Talebani, trattare o no? Cosa dice la diaspora

Razi Mohebi con la moglie Sohaila
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rattare coi talebani o no? Negoziare con la guerriglia in turbante o isolarla, se non con la pistola, con l’arma della diplomazia? E’ una domanda che non possiamo girare ai molti attivisti afgani ancora intrappolati a Kabul in attesa dell’aereo che li porti in Italia. Né ci sentiamo di chiederlo a N., giornalista, che l’aeroporto lo ha già raggiunto per imbarcarsi su un volo statunitense. Ma possiamo chiederlo a chi in Italia o a Londra è già arrivato da anni e dell’Europa ormai fa parte. Come Alidad Shiri, fuggito ragazzino dall’Hazarajat e diventato famoso con un best seller (Via dalla pazza guerra) che racconta quella fuga dall’Afghanistan al Belpaese, alla fine aggrappato al fondo di un Tir imbarcato a Patrasso. “Trattare coi Talebani. No, assolutamente”, dice categorico: “A loro devo la morte dei miei genitori – continua Ali, oggi testimonial dell’Unhcr -  a loro si devono migliaia di vedove e migliaia di orfani. Dicono di essere cambiati ma come si fa a credere alle loro promesse? Ho appena parlato con una ragazza che lavorava per il governo. Ha paura della vendetta e si nasconde”. Ma se è una reazione anche emotiva, la ragione impone una riflessione: “Penso che per ora il loro regime non vada riconosciuto. Dico che bisogna aspettare e vedere se le promesse sono un imbroglio oppure no”.

Ancora più netto è Atai Walimohamad, due libri alle spalle (l’ultimo è Il martire mancato) e un lavoro come traduttore: “Trattare? No, assolutamente. Chi vuole i talebani in Afghanistan? Il 20% della popolazione o forse più probabilmente il 10%… oggi ho ricevuto informazioni dalla mia zona di quanto è successo a Jalalabad e mi dicono che i morti sono una cinquantina e altrettanti i feriti. Come potremmo fidarci di gente sostenuta dal Pakistan e ora dai Russi e anche dagli Stati Uniti? Non sono cambiati, sono gli stessi che abbiamo conosciuto negli anni Novanta e a cui ora si oppone una nuova resistenza”. Atai, che a differenza di Ali fa parte della comunità pashtun, si riferisce all’iniziativa dell’ormai ex vicepresidente Amrullah Saleh nel Nord del Paese, un’iniziativa che non sembra però avere molte probabilità di fortuna ma a cui Atai attribuisce almeno il coraggio della reazione.

Di tutt’altro tenore la risposta del regista Razi Mohebi, nato a Ghazni, capitale dell’Hazarajat: “Trattare!”, dice al telefono dal Regno Unito che ha raggiunto con la moglie Soheila dopo una lunga permanenza in Trentino. “Trattare perché la prima cosa è il dialogo. Ma naturalmente non come è stato fatto finora, con promesse non mantenute. Ma bisogna trattare e dialogare trovando una formula nuova, un nuovo metodo. Non mi aspetto molto dai Talebani e penso che dobbiamo trovare una modalità, una cura come se dovessimo combattere una forma di Coronavirus. E’ un modo per dire che dobbiamo avere cura di noi stessi e degli altri e che la nostra funzione oggi di testimoni deve ricordare al mondo quello che accade, come se fossimo migliaia di Hannah Arendt in grado di denunciare questa nuova banalità del male. Certo adesso – conclude – la priorità è salvare la gente ed è un dovere della società civile far pressione sui governi in modo che funzionino i ponte aerei. Credo sia anche giunto il momento di farsi delle domande: perché l’Occidente è andato in Afghanistan? Cosa ha fatto in questi venti anni e, soprattutto, perché se n’è uscito di scena così velocemente”. 

Razi non ha torto. Se salvare la gente è una priorità, chiesta ogni giorno a gran voce da una mobilitazione dal basso che attraversa l’Europa, e se negoziare sarà forse più che una scelta una necessità, il momento delle domande non va rimandato o nascosto. Soprattutto quelle che riguardano le nostre responsabilità.
 

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