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sabato 20 novembre 2021

Maria Grazia Cutuli: l'omaggio di Radio 3

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La morte di Maria Grazia Cutuli, venti anni fa sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, non è solo una triste vicenda di cronaca che riguarda il mestiere di raccontare la guerra. La fine precoce di questa giovane donna che non aveva quarant’anni sembra davvero indelebilmente legata al ricordo di tanti: colleghi naturalmente, che la conoscevano in redazione o l’avevano incontrata sul terreno. Ma anche cittadini comuni, l’uomo e la donna della strada come si dice, persone che non riescono o non vogliono dimenticare questa storia. Forse per la sua giovane età o perché, allora, le donne reporter, specie se inviate, erano ancora una rarità... O ancora perché quella vicenda è legata alla nascita della War on terror, a una guerra sbagliata e a un Paese che sembra condannato a registrare una storia infinita di sangue, violenza e dolore

In tanti hanno scritto di e su Maria Grazia, così tanti che è facile dimenticarne qualcuno: a lei sono stati dedicati documentari come  È lì che bisogna essere per testimoniare e decine di servizi sulla sua vita in Sicilia o a Milano. Giuseppe Galeani e Paola Cannatella hanno realizzato una graphic novel sulla sua vicenda intitolata Dove la terra brucia ,  pubblicata da Rizzoli nel 2011. Eppoi articoli, commenti e libri: nel maggio del 2009, per esempio, Daniele Biacchessi la racconta nel suo saggio Passione reporter, dedicato ai tanti giornalisti uccisi sul campo. La giornalista Cristiana Pumpo ha scritto il libro Maria Grazia Cutuli   per Ali&No-Editrice nel  2011, dove ha raccolto testimonianze di amici e colleghi di Maria Grazia. Sono le fonti che utilizziamo per ricostruire la sua storia. Fonti e strumenti che sono il segno di come la si vuole continuare a ricordare. Senza retorica Anche vent’anni dopo

Nata a Catania nel 1962 è in Sicilia che Maria Grazia inizia come cronista. Prima a la Sicilia poi a Telecolor e a L'Ora di Palermo. Ma dopo si trasferisce a Milano dove lavora  al periodico di Mondadori Centocose  e poi a Epoca dove diventa  giornalista professionista. Ma c’è anche un periodo di collaborazione con l'Alto commissariato Onu per i rifugiati – l’Acnur -  un’esperienza che la segna nell’attenzione verso le vittime dei conflitti, dei disastri ambientali, della pulizia etnica. La strada è lunga come capita a tutti i free lance.  «Maria Grazia – ricorda l’Assostampa siciliana - aveva percorso tutta la difficile strada del precariato, prima di arrivare  a Milano e poi al Corriere, dove era andata agli Esteri con una serie di contratti a termine». Siamo nella metà degli anni Novanta. 


A
rrivare al Corriere non è solo un obiettivo di carriera:  significa anche poter finalmente partire e raccontare le storia più drammatiche, prime fra tutte l’esperienza terribile della guerra, il dramma maledetto della morte. A metà settembre 2001 - l’anno delle Torri Gemelle e del fatidico 11 settembre - il quotidiano milanese la manda in  Afghanistan. Prima tappa Gerusalemme poi il Pakistan. Infine l’Afghanistan dove il 7 ottobre 2001 la guerra  è ufficialmente iniziata anche se le operazioni coperte sono già cominciate da due settimane. E’ una guerra rapida ed entro novembre l’Emirato islamico dei Talebani ha già perso consistenti parti del Paese.  Le forze dell'Alleanza del Nord iniziano il loro attacco alla capitale  il 13 novembre contro  forze talebane  indebolite dagli attacchi aerei americani e britannici. Il  giorno successivo entrano a Kabul senza incontrare  resistenza mentre i Talebani si stanno ritirando anche da  Kandahar, la vera capitale dell’Emirato nel Sud del Paese. 

Maria Grazia aspetta di partire per Kabul da Jalalabad e forse le vengono in mentre gli altri drammi che ha già attraversato lungo quella rete infernale che è la guerra: in Cambogia per esempio da cui aveva  scritto un lungo reportage per Marie Claire

Sono le sette di una sera d’estate a Battambang, nordovest della Cambogia. Il sole è quasi sparito dietro la fila di palme che costeggiano le acque gialle del fiume Sangker, tra i fregi variopinti dei templi buddisti, oltre le ville liberty costruite dai francesi ai tempi della dominazione coloniale. La jeep delle Nazioni Unite segue sobbalzando la strada principale e ci lascia davanti a un hotel dal portico dorato. Abbiamo viaggiato per un giorno intero, tra campi di riso e villaggi di bambù, tagliando i sessanta chilometri che separano i confini della Thailandia da questa prima provincia della Cambogia. Un percorso che i funzionari Onu seguono ormai ogni mattina, da quando, dopo gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1991, è cominciata la grande operazione di pace che dovrebbe riportare in patria 350.000 profughi cambogiani. E che dovrebbe anche garantire tranquillità politica al Paese e, finalmente, democrazia

Più recentemente di guerra ne ha vista un’altra, quella alle porte di casa.                                                 E c’è nei suoi articoli una tensione speciale rivolta alle donne.

La vita continua. Anzi, ricomincia. In questo cuore di tenebra dell’Europa che è l’ex Jugoslavia, le donne bosniache, principali vittime dell’odio etnico, raccolgono i brandelli delle loro esistenze per tentare di ricucire tutto quello che la guerra ha distrutto: la famiglia, il lavoro, il proprio Paese. Lacerate da un conflitto razziale che non si aspettavano, depredate degli affetti, dei beni, spesso anche dell’intimità, hanno vagato in centinaia di migliaia per campi profughi, per regioni e territori dai confini stravolti, per villaggi che non erano i loro. Moltissime sono state fatte prigioniere in lager dove la pulizia etnica è stata sinonimo di stupro di massa. Altre sono rimaste nelle loro città, cercando di sopravvivere all’angoscia e al terrore. Altre ancora hanno preso il fucile e sono andate in trincea. Dopo tre anni di orrori provano a respirare di nuovo

Alla fine degli anni 90 è in Iraq e anche qui l’occhio si sofferma sulle vittime civili. Vittime non solo della guerra ma degli effetti di guerre non dichiarate che si fanno con sanzioni per colpire i regimi mentre si finisce inevitabilmente per punire i più deboli 

Otto anni di sanzioni economiche all’Iraq. Otto anni scanditi dalla miseria e dal deterioramento delle infrastrutture. L’embargo al regime di Baghdad, scattato nell’agosto del 1990 dopo l’invasione irachena del Kuwait, da una parte blocca l’export del petrolio, dall’altra limita le importazioni. Almeno fino a quando il regi me non avrà garantito lo smantellamento degli arsenali nucleari, chimici e batteriologici. In questi anni un milione di persone sonomorte, secondo stime Onu

Molti anni dopo, prima di entrare in Afghanistan, racconta il difficile mosaico pachistano, il back stage della guerra afgana, la retrovia storica dei combattenti islamici la cui capitale è Peshawar. Sono i primi incontri sulla rotta verso il paese dell’Hindukush:

Nasreen mostra le ciabatte di plastica. «È con queste che sono scappata da Kabul. A volto scoperto. Non avevo neanche il chador addosso.» In fuga sotto le bombe, trascinando i figli per mano. «Siamo saltati su un taxi, il primo che è passato. Via dall’Afghanistan, il più lontano possibile dalla guerra.» Nasreen ha quarant’anni, ne dimostra venti di più. Il viso cotto dal sole, quattro stracci addosso. «Siamo morti di fame, non abbiamo più soldi, dateci qualcosa per carità.» Altre braccia si tendono tra la folla. Altri volti di donne stravolte dalla rabbia, bambini appesi alcollo, ragazzini febbricitanti

Il tempo di entrare è arrivato: si attraversa il Khybr Passa, la porta dell’Afghanistan

Oltre il Khyber Pass, l’ingresso in Afghanistan è segnato da una fila di catapecchie vuote, che un tempo ospitavano un bazar di confine, chiuso tra montagne inaccessibili. I talebani sono spariti.
Hanno lasciato la strada che porta a Jalalabad. Hanno consegna to la città, i suoi dintorni, l’intera regione alle tribù dell’Est. Pashtun come loro, ma sotto altre bandiere

Il 19 novembre  Maria Grazia è con altri a Surobi, sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, a circa una cinqunatina di chilometri dalla capitale. Sono in tanti ad andare verso la città liberata ma quelle sono strade maledette. Strade maledette anche  da un’altra guerra che è iniziata vent’anni prima quando, nel 1979, l’Armata rossa ha invaso l’Afghanistan. Poi ci sarà la guerra tra mujahedin e poi, ancora, un conflitto tra loro e i  Talebani che, a metà degli anni Novanta, avevano conquistato il Paese. 


M
aria Grazia è con l'inviato di El Mundo Julio Fuentes e due corrispondenti dell'agenzia Reuters, l'australiano Harry Burton e l'afgano Azizullah Haidari.  Quel giorno, lo stesso in cui  il Corriere della Sera pubblica il suo ultimo articolo su un deposito di gas nervino, tutti e quattro vengono uccisi.  Guerriglieri? Banditi? Come? Perché? Le domande si inseguono in tutte le direzioni.  La salma di Maria Grazia, crivellata da colpi di proiettili alla schiena, torna subito m in Italia e il  funerale si svolgerà a Catania il 24 novembre. Tutto si svolge con rapidità anche se la memoria di quei giorni continua a rimanere viva nel tempo.

Lo stesso non  accade per la vicenda giudiziaria che dura anni: nel 2004 viene accusato e poi giustiziato un uomo: Reza Khan. Decisione afgana contro cui si appella la famiglia che vuole giustizia ma non la pena capitale. Khan verrà fucilato tre anni dopo. Poi è la volta di altri due afgani accusati del furto dei materiali di Maria Grazia: sono Mamur e Zan Jan condannati in videoconferenza dall’Afghanistan dove sono rinchiusi. Sentenze che non attenuano il dolore della sua scomparsa. La scomparsa di una donna che ha passione per il suo lavoro che ha sempre difeso  con caparbietà.  La strada è stata lunga per arrivare al Corrierone e una lettera inviata al Corriere l’anno scorso da Carlo Verdelli – allora vicedirettore del quotidiano di Via Solferino – questa sana caparbietà la racconta bene. Verdelli  ricorda l’ultima telefonata con Maria Grazia per  concordare il suo ritorno in Italia. “Eri lì già da un paio di settimane – scrive - e un collega era pronto a partire per sostituirti. Lo scontro con i Talebani sarebbe andato avanti per mesi e ci eravamo organizzati con un sistema di staffette. Cominciai col chiederti come stavi.
«Benissimo. Sto lavorando a una storia forte, un deposito di gas nervino in una base di Osama bin Laden».
«E quando l’avresti pronta?».
«Per adesso è solo una traccia, ho ancora bisogno di tempo. Ma ce la faccio, vedrai che ce la faccio».
«Stai molto attenta, Maria Grazia, ma tanto. Comunque passa gli appunti a chi ti darà il cambio. Hai il volo lunedì, giusto?».
Ci fu un silenzio lungo, come se fosse caduta la linea.
«Maria Grazia, ci sei ancora? Mi senti?»
«Sì, ti sento, ma devo chiederti una cosa».
«Dimmi pure»
«Ho compiuto gli anni, sai. Trentanove».
«Allora auguri. Torna che ti concedi una festa come si deve».
«È proprio questo il punto. Ecco, mi piacerebbe un regalo, non so come dirtelo diversamente. Sì, un regalo».
«E cioè?».
«Lasciatemi qui ancora un po’, cancellate il volo. Non posso venire via proprio adesso. Ti prego, un paio di settimane ancora».
«Non se ne parla. Hai fatto la tua parte, ora tocca a un altro. Quando è il momento, ripartirai per Kabul».
«Perdonami se insisto ma è importantissimo per me. Dammi fiducia. Il regalo per il mio compleanno. Non me ne importa niente della festa, non farò nessuna festa. Fatemi seguire quella pista. Sento che è giusta, sarà un gran colpo per il giornale. Dai, cazzo, per favore».

 Maria Grazia sta pensando al gas nervino ma non smette mai di pensare anche alle “sue donne”:

Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato nelle stra de migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a contendersi il controllo del territorio sino all’ultimo vicolo o all’ultima casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gesti sce il potere, decide il futuro

Già, appunto, il futuro. Il futuro cui va incontro Maria Grazia è quello di una guerra maledetta che, dopo 10 anni di invasione sovietica, quattro di guerra civile e altri sei di scontri  tra Talebani e mujahedin, adesso sta per aprire un altro lungo capitolo di conflitto per altri vent’anni: dal 2001 al 2021, dalla caduta di Kabul in mano all’Alleanza del Nord alla caduta di Kabul – vent’anni dopo – nelle mani dei Talebani nell’agosto di quest’anno: 250mila morti: 100mila civili afgani, 70mila soldati afgani, altri 70mila tra militari e civili pachistani… 
...Noi occidentali, i fautori dell’ultima guerra, di vite ne abbiamo perse 7mila: metà erano soldati, l’altra metà contractor, la manodopera mercenaria largamente usata dagli americani. Una guerra fatta fare agli altri

Adesso la guerra è finita. Tra l’infinità di cattive notizie ce n’è dunque una buona:la guerra è arrivata al capolinea o almeno così sembra.  Al potere è vero, ci sono i Talebani, islamisti radicali con un codice morale di riferimento rigido e conservatore e dunque il futuro è molto incerto. E’ incerto soprattutto per le donne di cui Maria Grazia si occupava e per le quali c’è una scuola che porta il suo nome. La scuola  intitolata a Maria Grazia Cutuli, scrivono i giornali nel 2010,  sorgerà nel distretto di Injil, nella provincia di Herat. In giugno  la cerimonia per la posa della prima pietra, alla presenza dell’architetto Mario Cutuli. E’ il fratello di Maria Grazia, per la prima volta in Afghanistan dal giorno della sua scomparsa. 

 E’ proprio il  paesaggio descritto negli articoli di Maria Grazia che ha fornito le prime suggestioni

progettuali al fratello architetto Mario  e a tre studi di architettura di Roma  che hanno seguito i lavori. E’ una scuola elementare dipinta di blu cobalto a una dozzina di chilometri da  Herat. Oggi  Mario, presidente della Fondazione Cutuli Onlus, esprime i suoi timori per il  futuro della “Scuola blu”: «Al momento – dice alla giornalista siciliana  Francesca Rita Privitera -  non abbiamo ancora notizie certe, se non che la scuola è stata operativa fino alla caduta di Herat. Capire quali saranno le sorti di quel progetto non è facile, anche perché, già in passato, non sempre il personale docente si è trovato d’accordo sull’impostazione da seguire, diviso, a volte, tra aperture a occidente e posizione più tradizionaliste”.

Come scuola elementare forse l’istituto non corre grandi rischia ma è pur sempre una fondazione straniera e questo certamente non piace al nuovo regime fortemente nazionalista. Ma quel che è certo è che il ricordo di Maria Grazia non si può spazzar via a colpi di decreto. E nemmeno il suo impegno per le donne afgane, donne che stanno dimostrando una forza forse insospettabile nella difesa dei propri diritti. Un fatto di cui i Talebani devono tenere conto. Non è un caso se la rigidità iniziale dell’Emirato sembra si stia attenuando seppur con la regola di una divisione fisica tra maschile e femminile, siano bambini e bambine o donne e uomini.

Come donna per Maria Grazia il tema dei diritti di genere è sempre stato forte, lo abbiamo visto nei luoghi che la sua testa e la sua penna hanno attraversato. E dunque non poteva mancare un’attenzione particolare a chi, donna, faceva come lei il suo mestiere. E allora torniamo indietro nel 1994 e restiamo in Italia, a Roma, dove, per Epoca, Maria Grazia va a trovare i genitori di Ilaria Alpi la giornalista della Rai uccisa col suo operatore Miran Hrovatin in quell’anno.  Lo racconta cosi

È morta per ciò che sapeva: ma nessuno indaga. A due mesi dall’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3, ammazzata a Mogadiscio insieme al cameraman Miran Hrovatin, il padre Giorgio denuncia a Epoca l’indifferenza e la reticenza del governo italiano a far chiarezza sulla morte della figlia. Una morte scomoda, che potrebbe portare dalle strade di Mogadiscio, infestate di banditi disposti a uccidere per pochi soldi, dritto alle stanze del nostro ministero degli Esteri. Nella babele di ipotesi, formulate all’indomani dell’agguato, se ne affaccia infatti una che collegherebbe l’uccisione di Ilaria a una sua inchiesta su alcune navi “donate” dalla cooperazione italiana alla Somalia. E su un peschereccio, in particolare: il Farah Omar, sequestrato (con tutto l’equipaggio a bordo) dai guerriglieri somali nel porto di Bosaso, a nord del Paese, dove la giovane reporter del Tg3 si era recata nei giorni precedenti all’agguato. Insomma, Ilaria aveva scoperto qualcosa su traffici strani tra uomini d’affari somali
e cooperatori italiani?

Poi Maria Grazie si sofferma sul contesto: sul salotto di casa Alpi dove si ripete l’inevitabile dramma della ricerca, di chi non si arrende davanti a realtà prefabbricate. Scrive ancora: 

Domande su domande. Ma soprattutto un’angosciante solitudine. Nel salotto di casa Alpi, al quartiere di Vigna Clara a Roma, i genitori di Ilaria raccolgono dispacci di agenzia, ritagli di giornali, filmati in videocassetta: frammenti di quella che chiamano «la nostra piccola inchiesta personale». Il padre, urologo in pensione, al polso l’orologio della Folgore portato da Ilaria come regalo dalla Somalia, legge con voce roca ma ferma gli appunti scritti su un paio di fogli. Raccontano il suo viaggio alla ricerca della verità dopo la morte dell’unica figlia, la storia di lei, studentessa di arabo al Cairo, poi giornalista non lottizzata al Tg3, il disinteresse delle autorità che hanno già dimenticato l’omicidio di Mogadiscio. Ultimo macabro saluto alla missione italiana in Somalia

Ci lasciamo dunque con le sue parole e quella capacità di raccontare oltre la semplice notizia che è una dote rara che fa parlare persino i mobili, il vuoto di una stanza, la potenza di un cielo o una montagna. E può essere ovunque – in Cambogia, in Siria, in Ruanda, in Afghanistan, in Italia – purché il giornalista tenga la schiena dritta e pensi sempre, prima di tutto, al suo lettore ancora prima che al suo direttore. Io direi che Maria Grazia faceva così: schiena dritta e saper mostrare i denti, se serve, per far digerire al capo qualcosa che, sui tavoli delle redazioni centrali, sfugge a chi non è li, sul posto, a guardare coi tuoi occhi. Occhi vivaci, come i suoi, che possono spegnersi da un momento all’altro. 

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