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giovedì 9 giugno 2022

Un tempo in Cina (di Danilo De Marco)

                       

Per gentile concessione dell'autore pubblico il mio  contributo scritto per l'ultimo libro fotografico di Danilo De Marco "Un tempo in Cina". 

Le foto che illustrano il testo sono tratte dal volume che si può ordinare qui


Il marzo del 2008 sul ‘Tetto del Mondo’ e tutto è pronto: è pronto nella capitale Lhasa, nei piccoli villaggi sparsi sulle nevi del Tibet, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama nella sede del governo in esilio. Tutto è pronto per ricordare l’anniversario del 1959 che ha segnato la fine definitiva di ogni speranza di indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di una rivolta che si è opposta all’occupazione militare da parte della Cina che aveva invaso la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, aveva chiuso definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai doveva diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio verrà frazionato tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, mentre ciò che resta diventerà nel 1965 la Regione Autonoma del Tibet, un’area della Repubblica Popolare Cinese a statuto speciale.

Nel 2008, però, c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa per commemorare la rivolta del ’59’. È un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati sulla Cina proprio per via dei Giochi. È il momento giusto per ricordare cosa è successo nell’ottobre del 1950 quando l’Esercito popolare di liberazione ha attraversato il fiume Jinsha e sconfitto in due settimane l’esercito tibetano. È il momento giusto, soprattutto, per ricordare il marzo del 1959 e la grande rivolta durante la quale lo stesso Dalai Lama, allora ventitreenne, dovette fuggire in India.

Ma è una storia che, anche questa volta, finisce male. Come la rivolta del 1959, repressa nel sangue e conclusasi allora con una strage dal bilancio incerto e stimata dai tibetani in ottantasettemila vittime. L’anniversario del 10 marzo 1959, celebrato ogni anno ma in modo particolare questa volta, segnerà nel 2008 l’ultimo grande tentativo di ricordare al mondo il destino di un popolo. Accompagnata da marce di protesta e cortei anche in Tibet, «Lhasa, quasi completamente circondata dalle forze dell’ordine», scrive Junko Terao in Tibet. Lotta e compassione sul Tetto del Mondo 1 , «è una pentola a pressione e venerdì 14 la situazione precipita. I civili scendono in strada a gonfiare i cortei e la protesta si trasforma in una vera sommossa anticinese. Negozi presi d’assalto, auto incendiate e mercato in fiamme: si tratta del più grande movimento di protesta degli ultimi vent’anni nella regione. Si diffondono voci di lotte tra tibetani e cinesi e i residenti Han, il gruppo etnico maggioritario in Cina, si barricano in casa. La polizia spara sulla folla e fa le prime vittime. I monasteri di Drepung, Sera e Ganden vengono chiusi e circondati dalle truppe cinesi, mentre nei pressi del mercato vicino al tempio di Jokhang un migliaio di poliziotti si scontra con quattrocento manifestanti. È iniziata la repressione».... continua su atlanteguerre




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