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martedì 18 marzo 2008

PROTESTA SENZA TESTA


Martedi 18 marzo
Emanuele Giordana
da Lettera22

La caccia all'uomo è già cominciata a Lhasa, nella provincia autonoma e nelle regioni del grande Tibet divise amministrativamente dalla Cina e dove la protesta è dilagata. Allo scadere dell'ultimatum lanciato dalle autorità di Pechino, e che imponeva a chi aveva manifestato di consegnarsi, è semplicemente proseguito quanto già messo in opera dopo gli scontri del 13 e 14 marzo e in realtà iniziato ben prima quando i monaci avevano iniziato a ricordare il 49mo anniversario della rivolta del 1959. Intanto Champa Phuntsok, governatore della provincia, ha restituito un bilancio ufficiale di 16 vittime dovute non all'uso della forza da parte dei cinesi ma... effetto egli incidenti e dei roghi dei giorni della protesta. Mentre a Lhasa regna la pax cinese, in India e in Nepal continuano le marce e monta nella comunità internazionale la sensazione che le opinioni pubbliche di mezzo mondo siano un passo più in là della timidezza e della cautela dei rispettivi governi. Continuano le manifestazioni di solidarietà e continua la catena di informazioni spezzettate che filtrano dalla cortina di bambù che circonda il Tibet e che fanno salire il bilancio dei morti oltre gli ottanta di cui si era parlato nei giorni scorsi. E qualcosa succede anche nel Comitato olimpico: il presidente del Comitato svizzero, Jorg Schild, ha scritto al Cio invitandolo a prendere posizione sulle violenze seguite alle manifestazioni anticinesi. Se non il boicottaggio almeno evitare un imbarazzante silenzio. La diplomazia internazionale invece tentenna anche se ieri Condoleezza Rice ha chiesto alla Cina di impegnarsi in un dialogo con il Dalai Lama, “occasione mancata da parte dei cinesi di impegnare l'autorità morale del popolo tibetano (il Dalai Lama). Spero che essi trovino ancora il mezzo di farlo». La Rice ha detto che ne parlerà con il ministro degli esteri Yang Jeichi e ha precisato che gli Stati Uniti hanno “veramente fatto appello da vari anni ai cinesi per trovare un modo di parlare con il Dalai Lama”.
In realtà le occasioni non sono mancate, come ricorda il tibetologo e linguista tibetano Chodup Tsering. “Ci sono stati sei incontri che non hanno prodotto nulla. Ogni volta viene chiesto al Dalai Lama di dichiarare una cosa che il Dalai Lama non può dichiarare perché sarebbe un falso storico e cioè che il Tibet è da sempre parte integrante della Cina. Anche la frustrazione dell'impossibilità di arrivare a una soluzione ha dato la stura alla protesta”. Pure J. Santumala, tibetano da oltre vent'anni in esilio, è d'accordo: “Rischiamo di essere una seconda Palestina. Il fatto è che la scelta della “via di mezzo” utilizzata dal Dalai Lama voleva evitare proprio questo. Evitare le violenze di questi giorni ed evitare che i giovani tibetani, che ormai si sentono immigrati in casa propria e che hanno davanti agli occhi 3mila templi distrutti e sono disperati, possano fare scelte estreme”. Rivolta totalmente spontanea? Totalmente, concordano sia Santumala che Tsering. “Totalmente perché in Tibet è impossibile organizzarsi, riunirsi in più di tre persone a bere un te per parlare di politica. Chi vive in Tibet non può materialmente pianificare una protesta e il paese è pieno di spie”. E dunque com'è nata la protesta? “E' nata sull'onda di una grande aspettativa creatasi con la marcia organizzata in India. Le voci – dice Chodup - hanno iniziato a girare, a correre. E oggi in Tibet ci sono i cellulari, comunicazione veloce, passa parola rapido. La cosa è andata così”. Lo conferma Piero Verni, autore di una biografia del Dalai Lama e che anche l'anno scorso ha dato alle stampe per Polaris il suo ennesimo libro sul Tibet. Sposato con una tibetana, Verni è in contatto costante col mondo tibetano: “Non ci sono in Tibet capacità articolate che possano progettare un'unità di intenti e d'azione. Purtroppo, aggiungo io. Ma la marcia indiana ha creato aspettativa ed eccitazione, unita al fatto che le Olimpiadi potevano trasformarsi in un'occasione. Si pensava che , proprio per via dei Giochi, la Cina non avrebbe usato la mano dura. Ma poi la polizia ha iniziato ad arrestare i monaci che per primi si sono mossi e ben prima delle giornate della protesta violenta. E' da lì che è scattata la rivolta, che la polveriera è scoppiata”. “Noi dobbiamo pensare a una comunità – conclude Chodup Tsering – nella quale molti ricordano e hanno vissuto la rivolta del '59 e poi la repressione dell'89 (con l'imposizione della legge marziale per oltre un anno ndr) e che vive la repressione, l'arroganza e la prepotenza dei cinesi immigrati che vivono in condizione di maggior vantaggio e prosperità. E non è finita. Nei prossimi anni si parla di una nuova immigrazione massiccia dalla Cina di dieci milioni di anime”.

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