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giovedì 8 maggio 2008

IL MIO (PICCOLO) TIBET


Di seguito il primo capitolo/prefazione alla raccolta di saggi raccolti sotto il titolo: TIBET, LOTTA E COMPASSIONE SUL TETTO DEL MONDO, un libricino edito da Il Riformista che si trova nelle edicole a 4 euro con saggi di Carlo Buldrini, Emanuele Giordana, Junko Terao, Ilaria Maria Sala, Piero Verni e un'introduzione di Antonio Polito. E' il racconto di come ho scoperto il dramma tibetano durante un viaggio in India (di cui allego una foto visto che, all'epoca, si poteva attraversare l'Asia a piedi, con l'autobus e, come nell'immagine, in treno) in compagnia del mio amico Davide Del Boca. Correva l'anno....

* * *


Nell'autunno del 1977 avevamo preso, com'era abitudine in anni in cui si disdegnavano gli aeroporti ed era molto più semplice viaggiare via terra, il Direct Orient Parigi-Istanbul che faceva tappa alla stazione Centrale di Milano. La meta – lontana - era il paesino himalayano di McLeod Ganj, una cittadella dell'Himachal Pradesh indiano dove, ed era tutto quel che sapevano, risiedeva il Dalai Lama. Che cosa ci avesse esattamente spinto ad andare là anziché, come altre a volte, a Kathmandu o a Bombay, non sapremmo dire. Durante il viaggio incontrammo molte persone che andavano in quel remoto villaggetto indiano tra cui un giovane amico milanese, incontrato a Lahore, che già vestiva i panni amaranto dei monaci tibetani e che fece un pezzo di strada con noi.Da Istanbul ci muovemmo in corriera sino a Teheran dove soggiornammo a casa dell'amico di un giovane studente iraniano, Kami, conosciuto a Milano. In quella dimora, tra tazze di tè, meloni e pistacchi, si discuteva animatamente della promessa di un anziano religioso in esilio che minacciava di tornare in Iran. Allora non sapevamo nulla dell'ayatollah Khomeini e forse neppure ne sapevano molto i nostri amici iraniani che aspettavano, dal suo ritorno, l'uscita del loro paese dalle secche della terribile dittatura dello Scià. Non sapevano che l'arrivo del sacerdote sciita avrebbe sì liberato l'Iran dai Palhevi, ma lo avrebbe anche precipitato in un altro tragico dramma.Da lì proseguimmo per Mashad, Herat e, infine, Kabul. L'atmosfera in Afghanistan era profondamente cambiata rispetto solo a qualche anno prima. Le tenebre di un inverno confuso si annunciavano in una città semi deserta dove non era difficile incontrare corpulenti signori con pesanti cappotti scuri. Erano, lo sapemmo anni dopo, alcuni dei duemila consiglieri sovietici che Mosca aveva inviato per indirizzare le sorti del piccolo paese asiatico. Percepimmo soltanto un'aria gelida che metteva i brividi e soffiava su un precipizio in cui stava per sprofondare uno dei più affascinanti paesi del pianeta. Il tragico labirinto di una sequenza di conflitti durati quasi trent'anni e non ancora conclusi.Avevamo attraversato, senza rendercene conto, l'anticamera di un inferno ma senza prenderne parte, distratti com'eravamo dalla beata incoscienza del nostro viaggio interiore il cui richiamo principale veniva dall'India dei santoni, dai tetti spioventi della magica città di Kathmandu, dai profili fallici dei templi indù del subcontinente.Passammo per il Pakistan rapidamente, osservando sul Kyber Pass la bizzarra enclave della “tribal belt”, la cintura tribale governata dai fieri pashtun della frontiera sempre armati di moschetto che, oltre l'Afghanistan, si chiamano pathan e sui quali, allora come oggi, la giurisdizione di Islamabad era poco più che virtuale. Ci sembrava folclore ciò che era in realtà la chiave per capire quel che succede oggi nel pantano afgano. Finalmente arrivammo a Nuova Delhi.Due giorni dopo già eravamo a Patankot, dove un treno overnight per il Nord si muoveva lungo chiassose stazioni punjabi, attraversate dai rituali richiami dei venditori di tè al cardamomo serviti in piccole tazze di creta, accompagnate da dolcetti di latte o pastelle fritte servite in larghe foglie venate. Da lì, attraverso un paesaggio che si snodava tra campi sempre più verdi circondati da foreste e vallate, si saliva in autobus sino a Dharamsala e, infine, al piccolo paesino di McLeod Ganj dove, in un'urbanistica dispersa e improvvisata, emergevano i dettagli di un piccolo Tibet ricostruito in modo raffazzonato e miscelato all'architettura tipica delle cittadine indiane. La giornata tipo prevedeva la colazione al “Last Chance”, un locale che alternava algidi scandinavi a hippy brasiliani, un giro al tempio, la costante guerra con le scimmie che popolano la cittadina e una rincorsa serale per arrivare in tempo al ristorante onde evitare di ritrovarsi senza cena. I più bravi andavano alla “Library”. I più colti compravano e divoravano opere scelte stampate malamente su una carta dove l'inchiostro era sempre irrimediabilmente sbavato. L'atmosfera era pervasa da una sorta di santità, o almeno così ci sembrava, ritmata dai mantra che uscivano dagli stomaci dei monaci tibetani, presenza costante e affascinante per noi giovani occidentali che avevamo barattato la civiltà dei consumi degli uomini “a una dimensione” - così la chiamavamo allora - per incontrare la strana spiritualità del buddismo tibetano che ci sembrava l'unica “via di salvezza” spirituale che si potesse coniugare col nostro spirito laico e libertario. In effetti, molto del richiamo del messaggio spirituale del Dalai Lama, contrariamente alle mille forme di proselitismo che alimentavano gli ashram indiani (i luoghi di purificazione che avevano attratto i Beatles e orde di giovani frikkettoni occidentali), sembrava accettabile anche a chi pensava che la religione fosse l'oppio dei popoli e diffidava in genere dalle tonache nere. Che, declinate alle diverse latitudini, ci ricordavano i prevosti sessuofobici della nostra gioventù peccaminosa e, più tardi, le vesti dei mullah iraniani o i turbanti degli islamisti afgani. I buddisti tibetani erano diversi. E il Dalai Lama, quell'uomo mite che davvero ci sembrava un Oceano di Saggezza, riusciva, col suo messaggio di compassione1 e di condivisione, a farci sentire che esisteva un mondo migliore di cui poter far parte. Senza per forza avere gli occhi a mandorla.Ma a Dharamsala scoprimmo anche quello che solo in parte avevamo letto o sentito dire del Tibet. Che molta gente era dovuta fuggire, che tanti uomini e donne erano stati uccisi, i monasteri distrutti, gli oppositori torturarti. La Cina di Mao, che qualche anno prima ci aveva affascinato con la sua liturgia di bandiere rosse e libretti di auree massime rivoluzionarie, era stato – scoprivamo adesso – anche questo: un paese che ne aveva invaso un altro e senza che nessuno o quasi avesse avuto da ridire. Le suggestioni di questa scoperta rimasero nelle nostre anime assai più scolpite di quelle appena percepite a Teheran o Kabul, dove le imminenti macerie della guerra fredda, una decina di anni dopo, avrebbero rivoltato un pezzo di pianeta e fatto discutere la metà del mondo. In Tibet invece, non succedeva nulla e nessuno ne parlava o ne aveva argomentato. Né allora né poi. C'era un tabù che improvvisamente era stato sconquassato dalla compassionevole tragica vista di questi profughi dai volti abbronzati e dal sorriso stretto nelle pieghe che il freddo disegna sui volti ancora giovani di questi popoli montani. Fu, in un certo senso, un piccolo “risveglio”.Tornammo da lì con la coscienza che il mondo non va nella direzione della “Via di mezzo” ma segue convenienze, opportunismi, scelte dettate dalla geopolitica e dal calcolo quali che siano le ragioni o i diritti di questo o quel popolo. Nei confronti dei tibetani, tutto ciò colpiva ancora di più. E colpiva quel silenzio fragoroso col quale il mondo aveva circondato e alla fine soffocato la “questione tibetana”.Il libretto che avete tra le mani è un'occasione per non dimenticarla. Guarderete le Olimpiadi come noi guardammo i territori dei pathan pachistani e cioè nella beata incoscienza propria degli agoni sportivi o delle gite turistiche. Ma questa volta non potrete ignorare che i cinque cerchi dei Giochi nascondono un dramma che, dal 14 marzo del 2008 (più correttamente sarebbe meglio dire dal 10 marzo), ha avuto, proprio grazie alle Olimpiadi ma anche per la caparbietà di un popolo, gli onori della cronaca. I saggi di Piero Verni, uno dei nostri maggiori conoscitori del Tibet che conosce personalmente il Dalai Lama, vi introdurranno alla storia del Paese delle nevi e al dramma interiore che si cela dietro al placido sorriso del Dalai Lama. Il racconto di Carlo Buldrini, che ha visitato McLeod Ganj ben prima di noi e certo con maggior coscienza di quanto non ne avessimo allora, vi accompagnerà nel mondo degli esuli, dimostrandovi che anche i buddisti sono solo uomini, dilaniati da passioni e sofferenze, incertezze, felicità e soprattutto dolore. Che cercano disperatamente di conservare un'identità. Il saggio di Ilaria Maria Sala, una giornalista che studiava a Pechino nei giorni della rivolta di piazza Tian’anmen, vi racconterà di come i cinesi hanno trattato la “questione tibetana” e di come non riescano altresì a liberarsi dalle scosse che turbano l'armonia che Pechino vorrebbe fosse il tratto distintivo di un Impero dove si può solo dire di sì e dove però si agitano sani dubbi e coraggiose contestazioni. Junko Terao infine, nel primo capitolo di questa raccolta, vi ricorderà le tappe che, dal marzo del 2008, hanno fatto riscoprire al mondo che il Tibet esiste e, soprattutto, esistono i tibetani.E' il tentativo di non chiudere rapidamente la finestra sul Tetto del mondo che monaci e gente in abito civile – perché la sommossa di Lhasa non è un fenomeno da monastero – hanno riaperto quel 10 marzo. Pensateci quando guarderete le gare olimpiche, al di là di come si sarà mossa la diplomazia internazionale. E' l'unica arma, al momento, che ai tibetani è rimasta in mano.

2 commenti:

Unknown ha detto...

buongiorno vorrei contattarla a proposito del Nepal anni '70 di cui sto cercando di scrivere un romanzo
grazie
dianella.bardelli@ibero.it

Unknown ha detto...

ho scritto male la mia mail
dianella.bardelli@libero.it