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martedì 2 settembre 2008
LETTURE OLIMPICHE CONSIGLIATE
Il polo e il golf, sport anglosassoni per eccellenza, pare abbiano avuto i loro natali in Cina. E persino il calcio, come anche la Fifa ha riconosciuto: certo, un calcio alla cinese che, già documentato nel secondo secolo avanti Cristo dallo storico Sima Qian, così veniva descritto 200 anni dopo dal poeta Li You: Un pallone rotondo in un campo quadrato/proprio come Ying e Yang/ le porte a forma di luna piena/ stanno agli opposti/ ogni parte ha sei in egual numero.
Ma se tutte queste notizie possono apparire al più delle curiosità con cui riaprire l'eterno dibattito sulla paternità delle grandi invenzioni, "Il podio celeste" (Storia dell'educazione fisica e dello sport in Cina), di Pietro Angelini e Germana Mamone, racconta assai di più. Di un'evoluzione che si dipana, fino alle soglie dell'era moderna, soprattutto lungo i percorsi della filosofia (ying e yang appunto) e quelli delle armi perché proprio il polo, chiamato jiqiu, oltre che a “deliziare la corte nell'epoca Tang, serviva anche ad allenare la cavalleria proprio come il calcio nell'epoca Han aveva allenato la fanteria". Nella Cina antica l'educazione del fisico era considerata una disciplina minore: al più connessa all'arte della guerra o rigorosamente da disprezzare nelle sue forme popolari (le arti marziali fanno eccezione) visto che la Via del Tao (se ci sia esibisce non si brilla/se ci si afferma non ci si manifesta/se ci si vanta non si riesce/se ci si gloria non si diventa capo recita la corposa summa taoista Daodejing) pare l'antitesi della competizione tipica dell'agone sportivo. Gli sport languono. Non che non si pratichino, ma restano relegati in una sfera della vita di serie B e, con l'affermarsi del confucianesimo, scemeranno sempre più in basso. Serve sì educare il corpo, ma giusto per la battaglia: non arte ma dovere, non scelta ma obbligo per chi deve pugnare. Al dotto, al saggio, al mandarino meglio si addice la luce fioca che illumina i testi della saggezza che non la rozza pratica di discipline che imperlano il corpo di sudore. Sfuggono alle maglie troppo strette del nuovo senso dello Stato che tutto deve definire, le arti marziali dove sapientemente si coniuga la cura del fisico con quella dello spirito, l'arte bellica e la disciplina con la ricerca di quell'equilibrio che piaceva ai taoisti, energia delle contrapposizioni che fa scaturire l'azione dall'inattività.
Ma la breve storia dello sport in Cina di Angelini e Mamone è qualcosa in più di una vicenda che racconta l'evoluzione del corpo fisico in questa cultura millenaria. Lo sport diventa, poco prima della Cina repubblicana, lo stimolo – indotto dall'arrivo degli europei – a liberarsi del loro giogo. E i comunisti di Mao, proseguendo sul cammino indicato dai pensatori riformisti e repubblicani (con Chiang Kai-Shek la Cina partecipa alle prime Olimpiadi), penseranno allo "sport rosso" col quale la Nuova Cina dovrà forgiare l'uomo nuovo. Che, come Mao insegna, può essere in grado, sconfiggendo il capitalismo, anche di piegare la forza di un fiume come lo Yangze, dove l'ormai ottuagenario presidente continuerà a nuotare fino alla fine dei suoi giorni. Simbolo dunque di un desiderio di riscatto, segno dell'avvento di un radioso avvenire, lo sport in Cina diventa, al di là della propaganda, anche un nuovo modo di essere e, soprattutto, di farsi percepire: nuovi attori sulla scena globale capaci, chissà, di superare nel medagliere olimpico anche gli americani.
Operazione culturale intelligente e stimolante, il saggio è una riflessione anche sull'utilizzo dello sport come forma di conquista politica, sia degli imperi coloniali sia dei regimi, e un'indagine attenta al dipanarsi di una epopea "muscolare" che percorre la lunga storia dell'Impero di mezzo. Con tutti i suoi balzi in vanti.
A cominciare da quella ping pong diplomacy che, negli anni Settanta, segnò il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina. Mao campeggia in copertina con la racchetta da ping pong in mano e un largo sorriso. Oggi dall'altra parte del tavolo, o meglio del televisore, ci siamo tutti noi che guardiamo le Olimpiadi.
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