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domenica 18 gennaio 2009

IL DRAMMA DEL GIORNO DOPO


Restando a Kabul per un periodo lungo e non, come al solito, per una settimana o dieci giorni al massimo, il tempo si dilata e siccome non devo seguire la cronaca, come di solito mi impone il mio lavoro, c'è più tempo per riflettere. Da giornalista mi sarei già dimenticato della strage di sabato, ma da uomo non posso farlo. Chiedo lumi sul bilancio definitivo che ancora forse non c'è. Un'ustione grave può ridurti in fin di vita e poi ucciderti lentamente, nel giro di qualche giorno. E così i feriti. Sembravano solo un a ventina ma sono molto di più. Quando scrivo, non penso mai al giorno dopo.
Se fossi qua a fare il cronista dovrei andare negli ospedali – quello di Emergency ad esempio – dove son stati fatti i ricoveri e controllare. Chiedere. Ma a quale giornale importerebbe il dramma del giorno dopo? Passata la buriana...via con un'altra notizia. Anch'io, da cronista, sarei passato oltre. Invece è proprio il dramma, i drammi, dei giorni a seguire che fanno la storia individuale e collettiva dei residenti di Kabul. Una chiave per capire Uno di loro mi dice : “...son stato sveglio tutta la notte per sentire le notizie, non staccavo gli occhi dal televisore”. Un altro, quando gli chiedo del numero delle vittime, mi risponde: “Quattro”. Ignora il morto americano, come se non lo riguardasse. Questa è la “nostra” guerra ma il dramma è tutto loro, di questi poveracci che abitano in una città coperta da un velo permanente di caligine e di tristezza che ti si attaglia addosso come se fosse umidità sudicia, un'umidità che non può esserci in uno dei climi più secchi del mondo. Secco persino quando piove o si scioglie la neve, come in questi giorni.
La città, nelle vie laterali, è una malsana palude dove sguazzano plastiche e rifiuti solidi urbani. Passando per Wazir Akbar Khan, nella zona delle dupakpersoame , le mega ville pacchiane costruite coi soldi della guerra e del narcotraffico, chiedo perché non li mettono a posto sti cavoli di sterrati pieni di buche. Una teoria è che fanno così per motivi di sicurezza...mm...qui ormai la sicurezza è la scusa per tutto. Ma un'altra versione, che mi pare più intelligente, me la dà Massud – chiamiamolo così. “Questa gente pensa solo al denaro: Ai 5mila dollari di affitto che può chiedere. Cosa gli importa di dare una mano al sindaco per sistemare la strada?”.
Chissà, penso, un giorno magari sui libri di architettura questo passerà anche per un quartiere caratteristico, carino, particolare. Una chicchetta per turisti e coppiette. Ora di allora avran anche fatto le strade. E forse, spero, questa guerra maledetta sarà finita.
Sotto l'asfalto futuro, non spiagge infinite ma brutti sogni e sofferenza finalmente ricoperti dal bitume.

Il credit di questa fotografia tratta dal blog “Bolle di sapone”

2 commenti:

MilleOrienti ha detto...

caro manulo, bella e toccante la tua cronaca del giorno dopo. sono felice di sapere che, dopo tanti rinvii, tu sia riuscito a partire. peccato che tu non mi abbia avvisato. ma ti auguro il meglio. scrivimi. marco

Paola Caridi ha detto...

manu caro, come hai visto, vivere all'estero cambia radicalmente anche il modo (e il mood) di fare il nostro mestiere.Gli invisibili salgono a galla, emergono dall'oceano di parole in cui ci crogioliamo quando siamo in Italia. Di loro scopriamo nome e carta d'identità (del kamikaze, dei feriti, dei passanti, dei tanti che vivono con l'incubo di un attentato, che non sarà l'ultimo). E' la storia fatta dagli uomini, e non dai titoli.