“Roma, ancora Roma”....se la vita fossero citazioni da film, quella di oggi sarebbe da Apocalypse Now. Solo che io non sono Martin Sheen e non è Saigon quella che vedo scostando la tenda (non la griglia di plastica da cui il capitano Willard spia Saigon, non ancora Ho Chi Minh City). Non c'è per fortuna una scena di sangue in previsione, né pale di ventilatori che mischiano il loro fruscio rotante a quello più ostico delle consorelle che sovrastano gli elicotteri (geniale colonna sonora del film di Coppola) e anzi dalla guerra sono lontano. Se non fosse che l'Italia è un paese deprimente, che mi accoglie richiedendomi un euro per il troller portabagagli e con una griglia di poliziotti che filtra gli extracomunitari all'arrivo del volo, c'è un sano respiro liberatorio a lasciare l'Afghanistan. Un paese dove la dimensione quotidiana è la strage degli innocenti. Ma non c'è un granché di eroico ad essere qui, nella bella capitale baciata dal sole e in un luogo dove i quotidiani, settimanali, mensili - che costituiscono il piatto forte della mia professione - si devono occupare del make up delle prossime congiunzioni astrali o del nuovo strappo di Rutelli, un uomo pio che tedia questo paese con la tempesta clericale che ossessiona la sua anima e che mi lascia onestamente assai freddo e anche un po' seccato. Che interessa loro di Logar?
Kabul è lontana. E' già lontana. Lontani i giardini di Babur. Lontani i suoi usignoli che non si posano. Lontani quei sentimenti sottili risvegliati come gemme sugli alberi nella stagione di passaggio di cilleh-e-qurd, che anche a Roma canta la sua musica primaverile. Ci sarà tempo per riflettere oppure, com'è più facile, per dimenticare, visto che quando si è qua, assorbiti da un quotidiano che obbliga a correre, telefonare, mandar mail, convocare riunioni e bere rigorosi calici di bianco, la lontananza geografica gioca brutti scherzi e si fa beffe della memoria. E con lei dei drammi a cui non è tanto facile, laggiù, abituarsi. Ma da qui, un morto in più a Logar che differenza fa? La cosa che mi colpisce del mio lavoro quando sono all'estero, è che non ne azzecco una. Succederà anche agli altri? Il giornale mi chiama per un fatto che avevo segnalato una settimana prima... “Eh si caro – mi dicono – ma oggi c'è sul Washington Post”. Oppure mi chiedono una cosa che a me pare del tutto peregrina e che invece, l'indomani, sarà l'apertura di tutti. E che? Dovrebbe mancare proprio la tua firma? Chi ha il coraggio di sottrarsi all'inesorabile stillicidio dell'omologazione?
Dalle tasche degli abiti di viaggio escono foglietti mischiati a memorie e ricordi. Escono teorie di biglietti da visita destinati a perdersi, con stampigliati nomi che diventano ideogrammi indecifrabili, specchi di volti e ruoli confusi. Scarabocchi sul retro che sembran geroglifici o una stele di Rosetta senza la lingua di mediazione, con numeri di telefono senza destinatario, sequenze numeriche indecise tra il cellulare e il conto della spesa. Altri invece, intonsi e come appena stampati, continuano a saltarti sotto gli occhi come se volessero restare attaccati al vestito o se una forza profonda reclamasse la necessità di un nuovo appuntamento.
Del resto come potrei dimenticare il vecchio Akitullah che mi aveva ripreso per il baffo poco curato mentre volteggiavamo nel suo negozio con l'intenzione di carpirgli qualche segreto, oltreché di comprar pellame come poi facemmo? Non posso dimenticare la bottega a Sharenaw e tantomeno i suoi protagonisti, anche se pure quella scena è lontana e sfuma. Allora, se dovessi citare un altro film, sarebbe: “L'esercito delle 12 scimmie”. A un certo punto una voce fuori campo – la voce di uno sconosciuto o semplicemente quella prodotta dal cervello di Bruce Willis – gli dice (cito a memoria)... “Non è forse vero che vuoi tornare là? E allora devi convincerli, far capir loro che sei la persona giusta e farti rispedire in quel mondo. Osservare il mare, ascoltare la musica, respirare l'aria ..rivedere lei...”. La bottega di Akitullah, naturalmente. Da non dimenticare coi morti di Logar.
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