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lunedì 9 febbraio 2009

L'OSSESSIONE DELLA SICUREZZA


Il tema della sicurezza è oggi l'argomento del giorno in Afghanistan. Faccio fatica a districarmici dentro e a capire i confini tra una paranoia ormai latamente dilagante, e un problema reale. Non voglio parlarne ora perché non ho le idee chiare, ma solo proporre un punto di vista. Noi occidentali pensiamo che la nostra visione sia quella corretta: abbiamo mezzi e coordinate per interpretare la realtà. E, ça va sans dire, gli strumenti son così perfetti che non si può sbagliare, come non sbaglia un navigatore satellitare. Ma certo anche quello è imperfetto: senza energia smette di funzionare. Oi, dove mi trovo?

Ora, nell'affrontare il tema della sicurezza, siamo sempre noi il centro del mondo. Mai gli afgani. Anche se siamo qui per garantirla a tutti, la sicurezza, ci preoccupiamo soprattutto di noi stessi. Credo invece che il dramma maggiore oggi lo viva il mio autista, il traduttore, quello che, al posto mio, va a fare la spesa. I talebani, mi sembra di capire, stanno lavorando sugli afgani non su di noi. Si certo a noi ci terrorizzano coi kamikaze. Ma la pressione sull'autista, il traduttore, la donna delle pulizie è enorme. Lavorate col nemico, siete nemici! Se mi sequestrano, io valgo un certo prezzo e inoltre, chi mi prende, sa che avrà addosso gli eserciti di mezzo mondo, i servivi segreti, la polizia locale. Uccidermi non conviene, rivendermi si. Se tocca a un afgano, il cui prezzo è quasi nullo? Vale come esempio buono per gli altri e dunque lo si può far fuori. Il mio autista torna a casa la sera in un quartiere senza luce, dove tutti sanno cosa fai, dove abiti, come si fa a scavalcare il cancello. Quanto ci stiamo preoccupando della sua sicurezza? Lui che è mille volte più esposto di me, di noi? Se mi metto nei panni di Ahmad, Nasir, Gul, mi vengono i brividi. E per farmeli passare non ci penso.

Mi concentro sul mio stupido percorso così superprotetto che in realtà finisce per concentrare tutti noi sempre negli stessi posti, esponendoci a un rischio più alto. Ma il vero rischio è sempre loro, degli afgani. Fuori del ristorante dove, al sicuro, rischio al più di finire sotto un tavolo travolto dallo spostamento d'aria, c'è quel signore che aspetta in macchina che io abbia finito. Persino quando cercassero di far fuori me, finisce che a pagar al mio posto c'è magari proprio Nasir. Vorrei, ma non so come, chiedergli scusa.

Kabul dal monte delle televisioni, giugno 2008. La foto è di R. Martinis

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