Asharf Ghani pensa che il primo passo debba essere un accordo sul cessate il fuoco. Abdullah Abdullah sostiene che parlare con i taleban fa fatto a patto che si escluda mullah Omar, il loro capo riconosciuto, e quel Gulbuddin Hekmatyar con cui il comandante Massud – lo sponsor ideale, in quanto è morto, di Abdullah – aveva qualcosa in più di una semplice ruggine. Infine Karzai pensa che il negoziato vada portato avanti senza preclusioni particolari (a parte il discorso che riguarda qaedisti e “stranieri”) e, a quanto si dice, il suo governo ha già cominciato a trattare...proprio con Gulbuddin, un alleato “tattico” dei talebani che gioca la sua carta personale. Per dirla tutta, ogni candidato alla presidenza ha una strategia per la riconciliazione nazionale, il processo di pacificazione, la fine della guerra. La signora Shala Ata, una delle due donne che sfidano l'universo maschile delle presidenziali, ha chiamato i talebani “fratelli”, sostenendo che sono comunque afghani. Con loro si può parlare.
Subito dopo le elezioni sarà questo uno dei grandi nodi da affrontare. E se, come si dice, la prospettiva è quella di una sorta di grande governo di unità nazionale, che includa gli esclusi e premi con uno scranno chi ha perso le elezioni ma ha pur sempre percentuali rispettabili, l'interrogativo del negoziato sarà forse il primo da affrontare pur con tutti i distinguo del caso.
Per quel che si può capire delle presidenziali afghane, una novità è certa: nel 2004 non solo Karzai vinse senza difficoltà, ma era il favorito di afghani e occidentali. Dopo la sua elezione i sondaggi lo diedero, ad un certo punto della sua iniziale carriera, con percentuali di apprezzamento bulgare: attorno al 90%. Ma ora? I suoi ex alleati occidentali hanno cercato più volte di azzopparlo e adesso hanno tutta l'aria di essere disposti solo ad accettarlo, purché si metta in riga. Quanto agli afghani, se mai gli daranno un voto che gli consenta di vincere al primo turno, lo stesso Karzai sa che lo avranno votato più per disperazione che per convinzione. Ecco perché si sta facendo strada l'ipotesi di un governo di “larghe intese” per dirla col gergo di casa nostra. Ma, per citare ancora il dizionario italiano, le convergenze parallele” saranno complicatissime e non basterà un Caf (il famoso asse Craxi-Andreotti-Forlani) a far diventare rosa il buco nero afghano.
A quel che sembra di capire, per la dirigenza talebana non farà molta differenza se a vincere sarà Karzai, Abdullah o Asharf Ghani. Qualche mese fa, sul finire dell'anno scorso, quando si parlava di una mediazione saudita per far dialogare il governo con gli insorti, mullah Omar rese noto un programma in sette punti come base di discussione. La cosa fu ampiamente ignorata anche perché si era ormai già in pre campagna elettorale. Ma adesso, dopo il voto, e benché difficilmente lo si ammetterà in pubblico, tutti vorranno sapere, da Washington a Kabul, da Londra a Kandahar, come va a finire la guerra. E poiché la guerra non finirà, si vorrà capire se l'arma del negoziato sarà più appuntita delle spade della Nato e degli uomini in turbante, tutte e due abbastanza spuntate.
Se dalle elezioni uscirà un esecutivo forte, pur a costo di compromessi anche eticamente discutibili, questo sarebbe il momento opportuno di mettere le carte in tavola perché comunque le elezioni sono un avvenimento difficile da ignorare politicamente anche dal movimento più radicale. Potrebbe essere il momento, anche se bisognerà mettere da parte molte preclusioni, distinguo, eccezioni. La posta in gioco è la pace. L'unica cosa per cui forse gli afghani hanno votato.
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