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giovedì 5 novembre 2009

TRAGICHE ANALOGIE

La morte in carcere ha sempre un comun denominatore: la reticenza e i contorni oscuri in cui è avvenuta e sui quali è sempre difficile far luce. Ma nella vicenda di Stefano Cucchi le analogie con un altra morte sospetta sono così numerose e l'iter investigativo così simile, da far pensare a una tragica fotocopia. Molti giornali e molti osservatori hanno recentemente ricordato la vicenda di Aldo Bianzino, un ebanista di Pietralunga che entrò in carcere una sera di ottobre per uscirne cadavere due giorni dopo. L'articolo a fianco che ricorda quella storia mette in luce un iter terribilmente simile, fatte le dovute differenze, con quello della vicenda di Stefano Cucchi. Due arrestati per possesso di sostanze stupefacenti muoiono in prigione. In entrambi i casi si guarda agli agenti di polizia penitenziaria e alla possibile ricostruzione dei vicini di cella, questi ultimi – come ha rilevato nella sua visita a Regina Coeli il senatore Stefano Pedica - intimiditi dalla possibilità di rappresaglie. Si indaga per omicidio preterintenzionale ma poi si scivola sul delitto colposo. Rapidamente l'attenzione si sposta dal carcere alla struttura sanitaria per Cucchi e, per Bianzino, su chi non gli avrebbe prestato soccorso medico. Dal dolo alla colpa. Lacerazioni, echimosi, fratture sono presenti nei due casi ma sembrano passare in secondo piano rispetto al decesso in sé: Cucchi morì perché “disidratato”. Bianzino morì per un aneurisma. Fatti che dunque esulano da cosa causò, del tutto o in parte, direttamente o indirettamente, la morte.

La parabola sembra dirigersi nei due casi verso l'omissione di soccorso come sembra voler dire il ministro Alfano quando recita che “...si doveva evitare che morisse (perché) uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque. Ma nessuno può essere privato del diritto alla salute”. Dal diritto a vivere al diritto alla salute, una derubricazione pericolosa. Infine le lacune: furono tantissime nel caso di Bianzino, sono altrettante nel caso di Cucchi, come ricordava ieri Luigi Manconi (che visitò da sottosegretario alla Giustizia la vedova di Aldo recandosi di persona a casa sua): almeno tre.
Come finirà con Bianzino lo si saprà l'11 dicembre quando il gip dovrà pronunciarsi sulla seconda opposizione fatta dalla famiglia di Aldo dopo la seconda richiesta di archiviazione del pm.


C'è solo una vera grande differenza tra i due casi. Stefano è morto a Roma sotto gli sguardi, per forza attenti, della stampa nazionale. Aldo morì nella casa circondariale di Perugia senza che il suo caso, salvo rare eccezione, riuscisse a incuriosire le frotte di cornisti che, solo qualche settimana dopo, invasero la città umbra per seguire il ben più vivace e allettante caso della povera Meredith Kercher. Anche la geografia finisce a dar più o meno peso a vittime del tutto uguali davanti alla morte.

Nelle foto: Aldo Bianzino e i suoi tre figli

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