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martedì 10 gennaio 2012

DIPLOMAZIA TALEBANA TRA DOHA, WASHINGTON E KABUL

Se l'ultimo indirizzo conosciuto dei talebani, o quantomeno della leadership più accreditata della guerriglia in turbante, era sino a ieri la città pachistana di Quetta, nei prossimi giorni potrebbe veder la luce un loro “ufficio politico” a Doha, in Qatar. La gestazione di un passo politico così importante, anche se ancora di là da venire e che desta speranze ma anche tensioni e timori, è stata lunga e sofferta. Solo settimana scorsa, sia i talebani, sia l'ufficio di presidenza di Karzai hanno effettivamente dato luce verde a un'ipotesi per settimane oggetto soltanto di mezze dichiarazioni e indiscrezioni di stampa. Ma la strada, da una parte e dall'altra, resta ancora in salita.

I talebani legano l'apertura dell'ufficio a due precondizioni: il rilascio di alcuni leader guerriglieri detenuti a Guantanamo e l'abbandono della presenza militare internazionale in Afghanistan. Possibile la prima, da escludere la seconda. Ma, sebbene apparentemente, la prima precondizione sembri quella più facilmente esaudibile, si tratta di un nodo difficile da sciogliere e su cui un accordo – tra talebani, governo afgano e autorità statunitensi – appare ancora complicato. La seconda precondizione è in realtà la più facile da bypassare se si applica alla richiesta la dialettica della diplomazia politica. La consegna del Paese in mani afgane, previsto dalla Nato per il 2014, indica infatti già che un passo in quella direzione è stato compiuto rendendo quindi la precondizione, almeno in parte, superata. Per la vicenda Guantanamo le cose sono più complesse. A Kabul e a Washington.
I nomi dei possibili prigionieri da rilasciare sono più o meno noti. Il più controverso è quello di mullah Mohammed Fazl, ex “capo di stato maggiore” talebano, responsabile dell'uccisione di migliaia di hazara, la minoranza sciita. I parlamentari americani meno sedotti dall'ipotesi del rilascio, ne hanno agitato lo spettro sostenendo che non è ammissibile liberare un assassino che corre il rischio di tornare alla sua antica occupazione. Gli altri potrebbero essere maulavi Khairullah Khairkhwa, già ministro ed ex governatore di Herat, il comandante Norrullah Nuri, maulavi Wasiq e Mohammad Nabi Khosti, entrambi funzionari dell'intelligence talebana. Infine haji Wali Mohammad, molto più businessman che talebano. Per motivi tattici, prudenza interna o in attesa di definire esattamente nomi e modi del trasferimento, la Casa bianca non ha ancora avviato la procedura di notifica al Congresso. Procedura che richiede un mese di tempo e che serve forse anche a convincere che la merce di scambio non prenderà il volo come, nello scorso aprile, accadde in una prigione afgana da cui fuggirono, con un tunnel scavato dai talebani, un centinaio di prigionieri. Uno dei nodi infatti è: dove andranno una volta liberati?

Kabul ha colto al palla al balzo per far sapere che non se ne parla di una liberazione in Qatar. Lo ha fatto il giorno dopo aver anche rivendicato il diritto dell'Afghanistan di giudicare tutti i reclusi sul suo territorio, segnatamente le diverse centinaia di talebani detenuti nella nuova prigione americana a Parwan, che ha sostituito il contestatissimo carcere di Bagram, allestito in un ex hangar sovietico e sotto il fuoco incrociato di giornali e organizzazioni per i diritti umani. Gli americani, per altro, hanno già chiarito da tempo che non se ne parla di cedere il controllo del carcere sino al 2014, ma gli afgani hanno rilanciato, menzionando un agreement con la Nato che riconoscerebbe a Kabul il diritto di giudicare e custodire i nemici catturati sul suolo patrio. Ma se l'argomento è sensibile da tempo, adesso c'è un motivo in più. Negli stessi giorni infatti le autorità afgane hanno anche arrestato due contractor britannici accusati di possesso illegale di armi e Karzai ha ripreso il tema della condanna dei raid aerei notturni, a base della strategia americana antiguerriglia. Segnali chiari che cercano di ristabilire, almeno davanti all'opinione pubblica, un minimo di sovranità nazionale.

In realtà, e senza nasconderlo dietro tatticismi diplomatici, Karzai ha dovuto approvare l'ufficio del Qatar obtorto collo, dopo aver inizialmente reagito col ritiro del suo ambasciatore a Doha. Non che fosse contrario in linea di principio all'apertura di un ufficio politico dei talebani, che comunque avrebbe preferito in Turchia o in Arabia saudita. Quel che ha infastidito Karzai è stata la gestione dei contatti coi talebani da parte degli americani (e in parte dei tedeschi), presumibilmente attraverso Sayed Tayeb Akbar Agha, ex comandante talebano perdonato da Karzai nel 2009 e uscito dal carcere nel giugno 2010. Contatti diretti senza passare da Kabul e tanto meno dall'Alto consiglio di pace afgano da poco istituito e che i talebani, dopo averlo ripetutamente ignorato, hanno umiliato uccidendone il capo, l'ex presidente Rabbani. Oppositore di Karzai, Rabbani era comunque l'uomo scelto dal presidente per guidare il negoziato di pace. La sua uccisione (imputata genericamente ai talebani) e, soprattutto, la gestione segreta e diretta di negoziati coi turbanti da parte degli alleati, significa per Karzai, agli occhi dei suoi cittadini e a quelli del mondo (oltre che di mullah Omar), che il numero uno del governo afgano non è nient'altro che il “sindaco di Kabul”, nomignolo che Karzai si porta dietro dall'inizio della sua carriera politica ma divenuto intollerabile nel momento in cui gli alleati stanno per andarsene, decidendo coi suoi nemici il futuro del Paese.
Dopo molti indugi, gli americani sembrano infatti davvero decisi a gestire direttamente il negoziato anche se dovranno fare qualche concessione a Karzai. La nuova dottrina strategica chiarisce del resto quanto già deciso a proposito della guerra afgana: meno uomini e più droni. Meno militari e più politica, compreso il riconoscimento dei talebani come controparte. Ma la nuova situazione rende più difficili i rapporti sia con Kabul, sia con Islamabad.

Di Kabul abbiamo detto. E se per ora un effetto è stato ottenuto, è che, nella capitale afgana, l'emarginazione dal processo di pace, o da quel che potrebbe essere, è stata mal digerita da tutti: il governo si è ricompattato e Karzai potrebbe trarre vantaggio politico dallo schiaffo americano anche in parlamento, dove non ha più una maggioranza amica. E tra l'opinione pubblica, nella quale le sue azioni sono in calo. E a Islamabad?

Le tensioni tra americani, Nato e Pakistan per ora non si sono raffreddate dopo il raid che in novembre ha ucciso oltre venti soldati pachistani. Da allora i due passi di Chaman e Kyber tra Pakistan e Afghanistan sono chiusi e impediscono a un terzo dei rifornimenti logistici (il resto arriva aviotrasportato o attraverso i Paesi dell'ex Urss) di raggiungere le caserme di Isaf. Anche se la Nato sostiene di avere riserve a sufficienza, il contenzioso non potrà protrarsi a lungo. E i pachistani lo utilizzeranno come leva per alzare la posta dei loro accordi con Washington. Uno riguarda gli aiuti civili e militari, sempre sotto il mirino del Congresso, e l'altro il negoziato afgano da cui anche Islamabad si sente in parte tagliata fuori. Una situazione che ha persino favorito un miglioramento dei rapporti con Kabul.

C'è infine un ultimo punto. La trattativa coi talebani chi riguarda? Apparentemente, per quel che concerne l'ufficio a Doha, si sta trattando con la shura di Quetta. Ma mullah Omar non si è ancora espresso direttamente. Con la fazione di Hekmatyar, che controlla parte dell'Est e del Nordest, qualche passo avanti c'è stato. I suoi emissari, guidati dal genero Ghairat Baheer, sono appena stati a Kabul dove hanno incontrato Karzai e funzionari americani. Sono favorevoli al negoziato e all'ufficio di Doha. Ma resta l'incognita della cosiddetta Rete Haqqani, la più qaedista e filopachistana fazione della guerriglia. Che per ora non ha ancora preso una posizione ufficiale e che resta un'altra leva in mano a Islamabad.

Le foto 1 e 4 di A. Ferrari. L'altra è di R. Martinis

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