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domenica 29 gennaio 2012
"LIBERO A KABUL"
Per chi si occupa di Afghanistan leggere quel che esce è un po' più che un diversivo. Direi un dovere morale. Che diventa dovere civile di riferire le proprie impressioni che, chissà mai, possano aiutare il lettore italiano a selezionare quel che appare in libreria.
Mi corre così l'obbligo, seppur con notevole ritardo, di segnalare Libero a Kabul di Fernando Gentilini.
Gentilini, diplomatico di lungo corso e assai poco raccomandato, che si è ritrovato a ricoprire in Afghanistan (tra l'estate 2008 e l'inizio del 2010 quando cedette il posto a Mark Sedwill) forse il ruolo più difficile per un civile in un Paese in guerra: quello di Nato Senior Civilian Representative ossia il rappresentante civile in una struttura militare per di più combattente.
Il libro illumina quel ruolo di cui di solito si sa poco ma la disamina delle difficoltà, dei problemi e dei magri successi, è fatta con estrema onestà intellettuale, senza infingimenti o frasi di rito. Gentilini anzi, traccia un quadro molto critico: più che della guerra, della sua gestione e senza risparmiar critiche all'Alleanza (ancorché fatte al positivo, ossia continuando a credere nell'importanza di quel ruolo e della struttura che ha servito). Dimostrando coraggio e senso della realtà. Un libro per cui qualcuno deve aver storto il naso ma che molti altri, nel suo ambiente, devono aver apprezzato. Dal libro, l'unica figura che in qualche modo ne esce bene, è quella del generale Stanley McChrystal, il comandante americano della Nato che tentò di ribaltare le sorti della guerra imprimendo una svolta coraggiosa a 360 gradi che si risolse poi col suo siluramento (il casus belli furono alcune sue frasi critiche riportate da un magazine).
Gentilini riconosce che l'opzione civile tanto sbandierata si era limitata a qualche abbellimento ma che la mentalità, la forma e la sostanza non erano cambiate. Che le resistenze e le ottusità erano molte anche se il suo libro illumina gli sforzi di chi ce la mise tutta per cambiare il corso a senso unico in cui il conflitto si era cacciato. Chiude il libro un accenno di speranza (e uno struggente ricordo di suo padre), rafforzato dagli ultimi avvenimenti che sembrano indicare un percorso negoziale. Il libro di Gentilini è dunque un lavoro onesto e serio che è utile leggere per capire quel conflitto. E' un libro che aggiunge e che credo si possa affiancare a un altro bel lavoro di un suo giovane collega: Mille giorni a Kabul di Nicola Minasi. Tra i tanti volumi inutili che si possono leggere sull'Afghanistan, molti dei quali scopiazzature e assemblaggi di rapporti e dossier, questi due libri raccontano la diplomazia al lavoro dietro le quinte e lo fanno con un'attenzione che merita di essere seguita.
Gentilini alterna gran parte delle sue riflessioni politiche a quelle umane. Ne vien fuori un rispetto per il Paese che gli fa onore e rende la lettura piacevole (Gentilini sa scrivere) anche se a volte fin troppo intimista.
Il libro ha una sola vera pecca, non imputabile, credo, all'autore. La foto della coperta (la solita donna col burqa in più con bambino in braccio) e la presentazione in prima che riprende una frase del volume che sembra strizzar l'occhio ai libri di Khaled Husseini (Ho visto soli che non erano rossi....), una dubbia e fortunata operazione editoriale in chiave orientalistica e con finale alla Tex Willer, con cui, fortunatamente, Gentilini non ha nulla a che vedere (traccia una top ten di libri da leggere sull'Afghanistan dove infatti Husseini non appare). Non fatevi dunque ingannare dalla copertina che, personalmente, in libreria mi avrebbe di corsa fatto scartare il bel lavoro di Gentilini. Diciannove euro e cinquanta ben spesi.
Nelle foto: a sn McChrystal e a dx Gentilini
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