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giovedì 18 luglio 2013

IL "MAGGIO" DI KABUL

Cosa resta in Afghanistan dopo oltre trent'anni di conflitto un terzo dei quali combattuto sotto la bandiera della Nato. La sudditanza della politica e la scelta di privilegiare l'opzione militare. Il ruolo giocato dall'Italia. Cosa ci si può aspettare dal futuro. Un bilancio di dodici anni di guerra e il campanello d'allarme della primavera 2006

Verso la fine di maggio del 2006, a cinque anni dalla fuga dei talebani e mentre si va stabilizzando l'occupazione militare dell'Afghanistan, suona a Kabul un campanello d'allarme. Non riguarda il ritorno in scena della guerriglia in turbante o qualche attentato di Al Qaeda, il mantra su cui si concentra l'attenzione occidentale, ma la popolazione della capitale. Una scintilla provoca una vera e propria sommossa popolare che si scatena, improvvisamente e imprevedibilmente, prendendo di mira tutto quel che trova sul suo percorso. All'origine di una rivolta di massa spontanea e assolutamente non organizzata, di cui fanno le spese tutti gli obiettivi riconducibili all'Occidente o al governo di Karzai, c'è un “banale” incidente stradale tra mezzi militari americani, che allora usavano scorrazzare in città ad alta velocità, e una dozzina di auto di residenti della capitale. Nell'incidente ci sono almeno cinque morti e un conseguente sussulto d'orgoglio che si trasforma in protesta diffusa. Il 30 maggio il bilancio ufficiale supera la dozzina di vittime, tra cui un poliziotto, e più di 130 feriti. Paradossalmente alcuni giornali puntano l'indice su balordi di periferia e gang criminali(1) anche se gli stessi soldati americani fanno almeno una parziale ammenda. Benché qualche più avveduto notista(2) commenti quella vicenda fornendo ben altri elementi, il fatto passa abbastanza inosservato. In un certo senso invece, proprio quell'episodio segna la prima vera occasione per comprendere che, giusta o sbagliata che si ritenesse quell'invasione da Occidente, giustificata o meno che si considerasse l'occupazione dell'Afghanistan, qualcosa stava andando storto.

Il maggio del 2006 segnò forse il punto di non ritorno: la dimostrazione che l'armata dei liberatori, come effettivamente la truppa straniera era stata accolta dopo l'uscita di scena dell'odioso regime talebano, si stava inevitabilmente trasformando in una truppa d'occupazione. Distante e arrogante come tutte le truppe d'occupazione e incapace, per sua stessa natura, di costruire un rapporto con gli afgani che mirasse davvero alla ricostruzione del Paese. Qualsiasi militare di buon senso ammetterebbe del resto che il suo mestiere è la guerra, non la pace. Le cartucciere, non le matite da disegno. Le caserme, non le scuole(3).
Uno dei problemi maggiori di quel conflitto sta proprio nel fatto che, per oltre dieci anni, si è cercato di dimostrare il contrario: che eravamo lì per ricostruire una nuova democratica nazione e che, per farlo, bisognava però puntare sull'elemento militare cui è stato sacrificato il 90% del budget impiegato dai Paesi della coalizione nel Paese dell'Hindukush. Se ne vedono ora i risultati. Che a ben vedere erano già visibili nel maggio del 2006.

1) New York Times, 30 maggio 2012, After Riots End, Kabul's Residents Begin to Point Fingers
2) Si veda il sito www.historycommons.org Context of 'May 29, 2006: Kabul Riots Suggest Discontent over Development and Governance'. Interessante la ricostruzione, da testimone oculare, che ne fa Pietro De Carli nel suo recente Afghanistan nella tempesta (Albatros, 2012)
3) Siveda confusione dei ruoli tra militari e umanitari è stata oggetto di un grande dibattito esteso anche al ruolo dei Prt (Provincial Reconstruction Team). Si veda, per citarne uno soltanto tra l'altro già del 2006: L. Olson, Fighting for humanitarian space: Ngos in Afghanistan, Journal of Military and Strategic Studies, Fall 2006, Vol. 9, Issue 1


Estratto dell'articolo 2001-2013. Bilancio di dodici anni di guerra afgana uscito sul numero di maggio della rivista di storia contemporanea "I sentieri della ricerca", diretta da Angelo Del Boca (n 16 della rivista della Edizioni Centro studi "P. Gnocchi" che può essere richiestaqui).
Vedi anche Lettera22

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