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La foto è tratta dal JktGlobe |
C'è una piccola fotografia che gira nelle redazioni dei giornali asiatici. E' del 2012 e raffigura un parlamentare dell'Awami League, il rampante Towhid Jung Murad, che bacia in testa Sohel Rana, il proprietario del Rana Plaza di Dacca, un palazzone malandato di otto piani più uno in costruzione che, la mattina del 24 aprile del 2013, implode su se stesso come colpito dall'urto di un terremoto. Uccide più di mille persone. Sohel, destinato nel giro di pochi giorni a cadere, come il suo palazzo, dalle stelle alla polvere, diventa il volto del cattivo accusato di strage ma, anche grazie a quella foto, emerge il dettaglio di un antico sodalizio tra e politici e speculatori, parlamentari e affaristi, “thug” (banditi) che la fanno franca grazie a chi dà una mano a far timbrare le carte. Anche quelle di palazzinari senza permessi, con materiali scadenti e una solerte rapidità edilizia che gode del grande boom che ha investito il Paese tanto da aver fatto del tessile la prima voce dell'export bangladese.

- 138 morti, centinaia di invalidi, famiglie senza lavoro, un solo colpevole. In piazza chiedono la pena di morte per Rana Sohel. Ma l'unico colpevole è lui? I grandi marchi anche italiani intanto, come Benetton, Manifattura Corona,Yes Zee, non risarciscono

La foto illumina dei dannatissimi pezzi di carta: ordini, fatture, annotazioni su stoffe, asole, bottoni. Ci son nomi altisonanti con cui collaborano le fabbriche ospitate al Plaza. Illumina la globalizzazione che in Bangladesh mostra uno dei suoi lati meno eccitanti e glamour. Può succedere: che ne sappiamo di come si regola il nostro omologo a migliaia di chilometri di distanza? Ma il problema viene dopo. Ammesso, obtorto collo, di essere coinvolti nel lavoro non tanto solare che si svolgeva a ritmo continuo al Plaza, ora bisogna pagare. Qualcuno lo fa. Qualcuno no. Qualcuno firma l'accordo sulla sicurezza nelle fabbriche, qualcuno invece fa orecchie da mercante su un altro accordo che vincola le aziende a rifondere le vittime. C'è chi sceglie la strada individuale: un po' di quattrini a qualche charity che si occupi di ripulire l'immagine...
Per essere chiari e venire ai fatti, nonostante sia stato siglato un accordo tra marchi, governo, sindacati e Ong sotto egida Onu per predisporre un programma di risarcimento delle famiglie, il Donor Trust Fund volontario istituito per raccogliere le donazioni è a secco. Un anno dopo il crollo i marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 milioni necessari. Sul libro nero ci sono tre società italiane: Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee.
Per saperne di più: Abitipuliti
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