Passo di Bolan, ingresso a Sud per l'Afghanistan |
Il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulga il “Manifesto di Simla” con cui la Gran Bretagna decide ufficialmente di spodestare il re dell'Afghanistan, che teme alleato dei russi, per sostituirlo con un altro monarca che rientra nelle sue simpatie. E' il punto di partenza della più tragica sconfitta subita dagli inglesi nel Paese dell'Hindukush. Una lezione che, ripetutasi con i sovietici negli anni Ottanta, sembra ricordare in parte anche quanto succede adesso in quel lontano Paese. E’ il vero inizio guerreggiato del “Great Game”, il grande gioco tra l’Impero zarista e quello britannico per la conquista dell’Asia centrale. Un gioco che non è mai finito anche se gli attori sono in parte cambiati.
Lord Auckland |
La corte di Shah Shuja |
L’operazione comincia da Sud con destinazione Kandahar. Al comando di Burnes la forza d’occupazione varca il passo di Bolan nel Sind nella primavera del 1839 e il 25 aprile Shah Shuja, accompagnato da Macnaghten, entra in città senza colpo ferire. Poi è la volta di Ghazni, più a Nord sulla strada per la capitale. Ma se l’avanzata militare va bene, i vertici britannici si rendono conto che attraversare l'Afghanistan è tutt’altro che una passeggiata e anche che Shah Shuja non sembra avere il consenso sperato. Si guardano bene dal comunicarlo a Calcutta e a Londra. Il dado è tratto.
La perdita di Ghazni obbliga Dost Mohammad a fuggire. O meglio a temporeggiare per trovare un altro modo di organizzare la resistenza contro un esercito disciplinato e bene armato contro cui in campo aperto avrebbe perso. A luglio il nuovo re riprende possesso della sua capitale che non vede da trent’anni. Scrive Jhon William Kaye, autore nel 1874 di una Storia della guerra in Afghanistan: “Il tintinnio delle borse di monete e il luccichio delle baionette inglesi gli avevano restituito il trono, ma ad accoglierlo c’era quello che sembrava più un corteo funebre che non l’ingresso di un re nella capitale dei suoi restaurati domini”. Il piano iniziale di Macnaghten dunque va rivisto. Insediare Shah Shuja non basta e bisogna presidiare la città e dunque restare. L’invasione si trasforma in occupazione. Nonostante diversi segnali che i consiglieri di Shah Shuja e i più accorti tra gli inglesi o tra le loro guide indiane avevano fatto presente ai capi, il comando britannico sembra ignorare la realtà. Macnaghten sta già pensando al suo prossimo incarico – il governatorato di Bombay – e Burnes se la spassa senza far gran attenzione al fatto che in Afghanistan toccare una donna locale non è uno scherzo che si dimentica. La piccola comunità dei civili al seguito, cresciuta con l’arrivo di mogli, figli e servitù, segue le partite di cricket e sorseggia tè compiacendosi del clima fresco di Kabul dove il caldo può essere feroce in estate ma è sempre secco e spesso mitigato dalle brezze. Non è solo la vita di quegli expat, come oggi li chiameremmo, a dare scandalo: i soldati al comando del generale Elphinstone, un militare già anziano e senza la benché minima idea di quel si va preparando, si erano distinti in azioni punitive contro le tribù circostanti. Gli accantonamenti inglesi inoltre, anziché essere vicini alla fortezza di Bala Hissar, sede del re, erano isolati e periferici rispetto al centro città. Un mondo a parte che stava per essere travolto.
Kabul tra Londra e Mosca |
Gli inglesi non capiscono che il figlio di Dost Mohammad, il principe
Mohammad Akbar Khan, sta preparando la contromossa. Solo qualcuno se ne rende conto: “L'animosità verso di noi aumenta di giorno in giorno e i loro mullah predicano contro di noi da un capo all’altro del Paese” scrive il maggiore Henry Rawlinson. Ma è una voce nel deserto. Il 1 novembre del 1841 parte il primo attacco che ha per obiettivo la casa di Burnes. L’uomo è praticamente solo perché le truppe, che tra l'altro esitano a muoversi, sono a quattro chilometri da casa sua che presto vien data alle fiamme. Burnes viene ucciso dalla folla inferocita. Mentre la rivolta si estende Macnaghten e Elphinstone perdono tempo prezioso in lunghe discussioni: agire? Punire? Trattare? Decidono di prepararsi a un possibile assedio nel mezzo del quale tenteranno qualche disastrosa sortita. Sotto il comando del principe, diventato poi il simbolo dell’indipendenza afgana, le truppe disomogenee delle tribù hanno mutato il tipico individualismo tribale in un jihad collettivo contro l’invasore. Col consenso di una popolazione che non solo odia gli stranieri, ma li accusa di aver fatto aumentare i prezzi al bazar. Akbar è ormai il dominus della situazione. In dicembre Macnaghten accetta di incontrarlo su una collina poco lontano dal fiume Kabul. Ma è una trappola. Il principe ha saputo che gli inglesi hanno pagato alcuni capi tribù per corromperli e li ripagano della stessa moneta. Nella notte il cadavere di Macnaghten, mutilato di testa, braccia e gambe, penzola a un palo del bazar.
La partita è persa e Elphinstone negozia un salvacondotto e una scorta per far rientro in India attraverso il Kyber Pass, la gola che porta dall’Hindukush alle pianure del Gange. Elphinstone sa che se raggiunge Jalalabad, ai piedi del passo, è salvo. Ma la sua disgraziata missione non ha futuro. Akabar è d’accordo con le tribù che aspettano gli inglesi al varco. La scorta promessa non arriva e un inverno impietoso aggiunge brace al fuoco che sta per divampare. La ritirata si rivela un disastro con assalti e agguati, mentre la penuria di cibo e i geloni falciano i civili aggregati alla truppa. Dopo l’ultima strage a Gandamak, quando ormai la meta sembra vicina, dell’armata inglese non resta quasi più nulla o così almeno sembra perché il 13 gennaio, dei sedicimila partiti da Kabul una settimana prima, arriva a Jalalabad un solo uomo: ferito e stremato che si trascina sul suo cavallo. E’ un medico, il dottor Brydon, il protagonista di uno dei più celebri ritratti di epoca vittoriana: Remnants of an Army di Elizabeth Butler.
Di 16mila... un uomo solo |
Che c’è da leggere
Il grande classico sul Great Game, la guerra di spie, soldati, colpi di mano e spedizioni militari che attraversò tutto l’Ottocento asiatico, è Il Grande Gioco di Peter Hopkirk in cui l’autore mescola fatti e documenti a una grande capacità narrativa in oltre 600 pagine che compongono il puzzle di quello che i russi chiamavano invece “Torneo delle ombre”. Operazione ripetuta poi con Diavoli stranieri sulla Via della Seta (entrambi di Adelphi), ambientato nei primi del ‘900 e che è invece la storia di avventurosi scopritori di quelle antiche civiltà. Il Grande Gioco in Asia centrale lo racconta anche Karl Meyer ne La polvere dell’impero, uscito qualche anno fa per Corbaccio, mentre Antony Wynn sceglie invece di dilungarsi su un frammento di quella storia (La Persia nel Grande Gioco, Il Saggiatore) come fa per altro William Dalrymple, che nel suo recente Il ritorno di un re (Adelphi) si concentra proprio su Shah Shuja, il re che possedeva il Ko-i-nur e che gli inglesi reinsediarono a Kabul. Ma Dalrymple lo fa con una marcia in più e cioè utilizzando moltissime fonti locali: afgane, indiane, persiane e lo stesso diario di Shah Shuja. Gli effetti di un Grande Gioco trascinatosi sino ai giorni nostri si possono invece leggere in Samarcanda. Storie di una città dal 1945 a oggi (Cliopoli), un libro fresco di stampa di Marco Buttino che analizza i cambiamenti di una città chiave nel Grande Gioco. Italiano è anche l’autore de Il cammello battriano (Neri Pozza), piacevolissimo racconto di Stefano Maltesta su una riscoperta tra gli echi del Great Game e della Via della seta.
*In forma più estesa questo racconto si può ascoltare in podcast su Radio3 Wikiradio a cura di Loredana Rotundo. Regia e scelte dei sonori di Antonella Borghi. L'articolo in edicola oggi con il manifesto
** aggiungo anche che, per mia colpa, ho scritto due volte 19... anziché 18... sicché sembra che la guerra anziché qualche anno sia durata un secolo... l'ho corretto nel post ma aihmé non sul giornale
*** qui una lettura odierna di quella crisi segnalatami da un lettore
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