Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

domenica 26 novembre 2017

Il viaggio difficile di Francesco Bergoglio

Non è un viaggio facile per papa Francesco Bergoglio quello che inizia lunedi in Myanmar per proseguire poi in Bangladesh. Il papa, che incontrerà il presidente birmano Htin Kyaw e la sua premier “de facto” Aung San Suu Kyi, prevede anche un incontro, il 30 novembre, con il generale Min Aung Hlaing, l’uomo forte del Paese e il più potente rappresentante dell’esercito. Molto girerà attorno alla questione dei rohingya, in un’atmosfera che rischia di essere tesa, anche se Joseph Kung Za Hmung, laico cattolico, fondatore di una Ong e del servizio cattolico di mass-media e web “Gloria Tv”, dice all’Agenzia vaticana Fides che «la gente aspetta Francesco con grande gioia e benevolenza. Fedeli di tutte le religioni lo apprezzano e lo rispettano, soprattutto i buddisti. Non abbiamo visto, finora, alcun segnale negativo da parte di quei gruppi estremisti che potrebbero indire manifestazioni… abbiamo registrato però delle parole ostili sui social media, dove alcuni accusano il papa di aver preso le parti dei musulmani rohingya».
I segnali ci sono e, purtroppo, non solo sui social.



Domenica scorsa migliaia di persone, tra cui monaci buddisti – racconta il magazine locale Irrawaddy – hanno partecipato a manifestazioni in onore del “Tatmadaw Admirer Group”. Tatmadaw è l'esercito birmano e – nota il giornale – mai come questa volta gente comune e monaci buddisti si son stretti attorno a chi ha ripulito dai rohingya lo Stato orientale del Rakhine. Alle celebrazioni il più famoso monaco ultranazionalista Ashin Wirathu non è andato (il Consiglio nazionale del Sangha, che regola i rapporti tra clero buddista e Stato, gli ha vietato discorsi pubblici) ma ha inviato un messaggio per lodare l'esercito e le forze di sicurezza che “proteggono” il Nord Rakhine; condannando la comunità internazionale per averlo censurato. Il suo gruppo, Ma Ba Tha, è ufficialmente sciolto ma è risorto con altri nomi come la Buddha Dhamma Parahita Foundation.

Ottama, un monaco assai noto e citato in un reportage dell’Associated Press, dice all'intervistatore che non capisce perché il papa «venga nel mezzo di un conflitto» se non per favorire i “bengalesi”, come in Myanmar vengono chiamati i rohingya, un termine vietato nel Paese delle mille pagode. Così vietato che persino il cardinale Charles Bo, a capo della fragile comunità cattolica birmana (700mila su 51 milioni), ha pregato Francesco di evitare quella parola. Parola usata per altro più volte da un papa che i rohingya li ha chiamati “fratelli”. Il pontefice incontrerà comunque anche esponenti del Sangha e in un momento delicatissimo. Il ministero degli Affari religiosi e della cultura ha infatti appena presentato in parlamento un progetto di legge contro i “discorsi dell’odio”, che punisce individui o gruppi che se ne facciano promotori. Una mossa del governo che gli ultranazionalisti religiosi alla Wirathu guardano con sospetto e che metterebbe un freno a una legge, fatta ad hoc durante la dittatura, che protegge in chiave nazionalista il buddismo birmano: la Protection of Race and Religion Laws, varata nel 2015, bollata da molti come discriminatoria verso donne e musulmani.
La recente luna di miele tra monaci e militari sarebbe iniziata proprio con il primo recente esodo forzato di rohingya nel 2012. Da allora gli episodi di violenza, intimidazione, odio hanno cominciato a diventare abituali e protetti, contraddicendo una tradizione che vedeva nei monaci birmani una forza prevalentemente progressista. Se ancora probabilmente lo è, è pur vero che le cose sono molto cambiate e che il fidanzamento coi militari corrisponde, per molti, anche a una sorta di divorzio dalla Lega per la democrazia di Suu Kyi.

Nessun commento: