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sabato 12 gennaio 2019

Myanmar, niente appello per i reporter in galera

La corte d’appello di Yangon ha rigettato ieri il ricorso presentato dai legali di due giornalisti birmani dell’agenzia internazionale di stampa Reuters che, nel settembre scorso, sono stati condannati in primo grado a sette anni per violazione del segreto di Stato. Wa Lone e Kyaw Soe Oo non hanno partecipato all’udienza nella quale il giudice ha sostenuto che la difesa non è stata in grado di dimostrare la loro innocenza e che la punizione comminata è “adeguata” al crimine commesso.

Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono due giovani reporter birmani che hanno raccolto prove dirette sui crimini commessi da Tadmadaw (l’esercito) nello Stato del Rakhine da cui, nell’agosto del 2017, i militari hanno costretto alla fuga oltre 700mila rohingya, la minoranza musulmana della regione che si è ormai quasi completamente trasformata in diaspora, in gran parte in Bangladesh. Arrestati con una trappola dopo aver incontrato degli agenti che hanno messo nelle loro mani dei documenti, i due reporter avevano raccolto prove in particolare su una strage compiuta dall'esercito nel villaggio di Inn Din, nel Nord del Rakhine nel settembre 2017. I loro colleghi hanno poi pubblicato la ricostruzione dell’eccidio che, dopo mesi di reticenza, ha spinto Tatmadaw a condannare sette soldati ai lavori forzati. E’ l’unica strage ammessa sinora dai generali birmani su cui sta indagando anche la Corte penale internazionale.

Stephen Adler, già direttore di Reuters News e presidente di Reuters Corporation, ha definito il
rifiuto della corte "un’ennesima ingiustizia. Il giornalismo non è un crimine – ha aggiunto – e finché il Myanmar continuerà a commettere errori simili, la sua stampa non potrà considerarsi libera”.

Le reazioni al rigetto del ricorso si sommano a quelle che accompagnarono la sentenza di settembre che era stata criticata con forza non solo dal mondo della stampa e dalle organizzazioni come Amnesty International, ma anche dal corpo diplomatico di diversi Paesi. La sentenza era stata per altro stata difesa anche da Aung San Suu Kyi, la Nobel de facto premier del Paese, che sulla questione rohingya ha sempre preferito non spendersi per evitare colpi di coda dai militari. Ma il fatto che in appello la pena venisse abolita o quantomeno ridotta era considerata una possibilità che avrebbe allentato la tensione nei confronti del Myanmar. Ed è dunque un brutto segnale che indica una via sulla quale non sembrano esserci ripensamenti e che allontana sempre di più il Myanmar dalla strada del diritto e dal rapporto con i Paesi che sul dossier rohingya hanno preso posizione. Cina, Russia e India, per citare i partner maggiori, coccolano invece l’esecutivo di Naypyidaw. Pechino, in particolare, che proprio nello Stato del Rakhine – attraversato di recente da nuove violenze – ha interessi economici importanti: denaro cinese ha permesso a Kyaukphyu la creazione di un porto industriale per facilitare il trasporto di gas naturale e petrolio dall'Oceano Indiano bypassando lo stretto di Malacca.

Della costruzione di una sorta di muro tra Myanmar e Bangladesh dà invece notizia oggi il quotidiano di Dacca Daily Star. In quello che il Bangladesh definisce una flagrante violazione del diritto internazionale, il Myanmar sta costruendo una struttura  nella terra di nessuno al confine tra i due Paesi, nella zona di Ghumdhum. La struttura - spiega il quotidiano -  ostruirebbe il flusso delle acque nell'area e potrebbe causare  inondazioni ma soprattutto metterebbe a rischio i circa 6.000 rohingya che vi si ritrovano a  vivere  - in pessime condizioni -  dall'agosto del 2017. La struttura ha infatti tutta l'aria di essere una  stazione di pattugliamento oltreché una barriera fisica.


Questo articolo è uscito su il manifesto

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