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martedì 24 dicembre 2019

Se la moda sposa il sociale

Il quartiere di Sherpur a Kabul ne ha viste tante. C’è ancora il vecchio cimitero britannico, memoria delle guerre ottocentesche, in mezzo agli edifici costruiti dai signori della guerra che su terra demaniale, una quindicina di anni fa, hanno costruito un quartiere residenziale per ricchi afgani e internazionali: ville che mescolano in un kitsch stupefacente le architetture di Dubai, Peshawar e Capitol Hill, spruzzate di specchietti persiani colorati. Non lontano c’è la “zona verde” delle ambasciate e più a Sud l’ospedale di Emergency. L’atelier di Zolaykha “Zolay” Sherzad è una piccola sorpresa. Incastonato nel cortile di un edifico dei primi del secolo è una gemma preziosa, come i suoi abiti, nel caos della speculazione di una città in guerra.

Zolay a sn con una modella. Sopra, il laboratorio
Sotto un modello recente
Zolay è una stilista afgana che nel 2005 ha creato il brand Zarif Design con l’idea di ricostruire l’eccellenza del settore artigianale locale in cui la componente essenziale è la partecipazione e formazione delle donne, la maggior parte della cinquantina di lavoranti dell’atelier. Ma Zolay la incontriamo in Italia, un Paese dove sta pensando di portare le sue collezioni. Alla festa per i cento anni dell’indipendenza del suo Paese, da poco celebrata all’ambasciata afgana di Roma, espone in un candido padiglione cappotti di lana finissima, giacche di cotone e seta ricamate, waskat (gilet) e chapan, il lungo mantello indossato dall’ex presidente Karzai. Tutto è cucito a mano. Waskat e chapan, indumenti tipicamente maschili, sono pensati per donne finalmente libere dal chadri (burqa). Recupero della tradizione ma anche creazione. E liberazione. “Cerco di rivelare l'identità della donna non tanto nel suo genere ma piuttosto nel suo carattere e presenza. E questi materiali preziosi, una volta rielaborati, sono un ponte tra tradizione e modernità”.

Durante l’invasione sovietica, la sua famiglia lascia l’Afghanistan. Lei ha dieci anni e dalle
montagne che circondano Kabul si ritrova in mezzo a quelle svizzere dove nel 1994, a Losanna, si laurea in architettura. Fa la sua gavetta negli studi di architettura svizzeri, in Giappone e a New York dove, dal 1998 al 2004, insegna alla Pratt Institute School of Architecture. Ma il cuore è in Afghanistan dove torna dopo il 2001. Fino a quel momento ha ideato e sostenuto un progetto per costruire scuole nei villaggi rurali ma i suoi interessi stanno cambiando. Durante una vista in una scuola finanziata dalla sua associazione, capita per caso in un atelier locale e resta impressionata – confiderà a un giornale francese – dalla qualità del lavoro ma anche da quella che definisce la “perdita di identità di quelle confezioni”. “In effetti – dice oggi - non ero molto interessata alla moda in quanto tale ma in Afghanistan mi è nata una passione e la chiave del mio lavoro è usare la creatività come mezzo di sviluppo economico, sociale e artistico. In Afghanistan c’è una distruzione fisica non solo ambientale ma anche del patrimonio culturale. Che ne ha cancellato l’identità”.

Dal 2005 in poi è un vortice: fonda Zarif e nel 2007 Kate Hudson indossa un suo modello ne “Il fondamentalista riluttante” di Mira Nair, che è andata apposta a Kabul per sceglierne la giacca. L’anno dopo Time le dedica il primo articolo sulla stampa internazionale: Building a Bridge with style, costruire ponti con stile. Un ponte verso l’estero da Delhi a Dubai, da New York a Parigi con un passaggio alla Biennale di Venezia del 2009, a dOCUMENTA Kassel nel 2012 e alla Biennale dell'Avana nel 2015. L'ultimo viaggio in Europa è a Parigi con tre appuntamenti in novembre. Poi, l’anno prossimo, tornerà ancora in Italia.

Questo articolo è uscito su D di Repubblica sabato 14 dicembre 2019

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