Non sono molti i cattolici in Asia, poco più di 120 milioni. Il Paese cattolico per eccellenza sono le Filippine dove dei suoi cento milioni di abitanti l’86% guarda al Vaticano. Ma c’è un piccolo Paese dove i seguaci di Pietro sono il 97% della popolazione: più delle Filippine e persino dell’Italia (dove si considera cattolico circa l’80% dei credenti). E’ Timor Est, 1,3 milioni di abitanti, indipendente da meno di vent’anni e uscito da una guerra fratricida per l’indipendenza ostacolata in ogni modo dall’Indonesia, di cui era provincia dopo la fine della colonia che faceva capo a Lisbona. Paradossalmente da questo piccolo, lontano e poverissimo Paese arrivano un paio di lezioni in tempo di Covid-19. La prima riguarda il virus, la seconda il ruolo, non certo secondario, della Chiesa.
Il primo caso di Coronavirus è del 21 marzo ma da tre giorni Dili ha già chiuso le frontiere con l’Indonesia, che governa la metà occidentale dell’isola più orientale dell’arcipelago. Scattano subito le restrizioni - che sono state appena riconfermate a fine aprile – e il 28 marzo lo stato di emergenza. A oggi Timor Est può vantare solo 24 casi e nessuna vittima. La Chiesa locale, anziché sbraitare contro la libertà religiosa, ha appoggiato il governo sin dall’inizio, cosa appena ribadita qualche giorno fa. La messa e il servizio religioso si continuano a fare ma via cavo, con la radio, sui social. L’arcivescovo di Dili, Virgílio do Carmo da Silva, noto per le sue posizioni sempre concilianti e per un messaggio più volte ribadito di riconciliazione nazionale, ha fatto di più. E ha istituito una sorta di comitato pastorale con competenze di psicologia e medicina per sostenere i più deboli. Il comitato lavora con l’aiuto di sacerdoti, suore e volontari e con la locale missione della Caritas. L’arcidiocesi di Dili ha anche fatto provviste per i più emarginati: sei tonnellate di riso, olio e latte da distribuire nelle 30 parrocchie della sua giurisdizione. Una nota fa sapere che un occhio di riguardo sarà per le vedove e per i venditori ambulanti che, per via delle restrizioni, non possono viaggiare. Quel che resta sarà distribuito nel resto dell’isola.
Nell’altro grande Paese cattolico le cose vanno invece molto diversamente e la Chiesa non può farci granché. Con quasi 9mila casi e oltre 600 morti, le Filippine sono superate nel Sudest asiatico solo dall’Indonesia (più di 800 vittime). Guidata da Rodrigo Duterte - un Trump in salsa agrodolce - Manila ha scelto la linea dura non essendo in grado però di gestire la crisi sociale. Come spiega su Open Democracy il sociologo filippino Filomin Gutierrez, il presidente ha sottovalutato la virulenza del virus e ha assicurato di avere le coperture necessarie mentre “coerentemente con la sua aggressiva posizione contro il crimine” incaricava la polizia e l'esercito di "sparare a chi seminasse disordine”. Ottenuti i poteri di emergenza dal Congresso – cosa che nel suo caso è preoccupante - Duterte ha varato un programma di miglioramento sociale e di assistenza in contanti ma si è rapidamente visto che la domanda superava largamente l’offerta. E le carceri sono così piene - oltre 130mila detenuti - che lo sceriffo ha dovuto amnistiare quasi 10mila prigionieri per la crescita del virus nelle galere. “La pandemia – conclude Gutierrez - ha messo in luce tensioni interclassiste latenti” e ha visto la classe media e quella dei lavoratori tutelati prendersela con il settore informale. Solo donazioni private o di reti solidali “hanno indicato il solido potenziale di risposta della società civile”. Una luce in fondo al tunnel.
Nessun commento:
Posta un commento