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venerdì 28 novembre 2008

DIETRO LA STRAGE DI MUMBAY



Il ministro degli esteri del Pakistan Shah Mahmood Qureshi stava preparando le valige a Islamabad per la sua imminente partenza per Nuova Delhi mentre i terroristi preparavano l'operazione di guerriglia che è riuscita a tenere in scacco le forze di sicurezza indiane e a provocare una strage le cui dimensioni sono ancora incerte. La sua missione era quella di costruire un nuovo “ponte” tra i due paesi che, dalla fine del Raj britannico nel 1947, si guardano in cagnesco, hanno combattuto tre guerre, vivono in uno stato di perenne tensione e qualche anno fa sono stati sul punto di scatenare l'ennesimo conflitto, puntandosi baionette e testate nucleari.
Come sempre, gli attentati servono a fermare le lancette della storia. E a far saltare una difficile mediazione e le reciproche aperture tra India e Pakistan, fortemente volute dall'allora presidente golpista Pervez Musharraf, non era stato proprio un attacco al parlamento indiano dei mujaheddin del Lahkar-e-Toiba (messi fuori legge dallo stesso Musharraf)? Era il 2001. Il negoziato saltò, proiettando Delhi e Islamabad sulla pericolosa frontiera della guerra. Attentati, attacchi a civili inermi o azioni della guerriglia, sono sembrate molto spesso azioni per boicottare la strada, comunque sempre in salita, che cerca di raffreddare le relazioni sempre tese tra i due paesi.
L'attacco di mercoledi sera, protrattosi come una vera e propria azione di guerra, aveva tutta l'aria di essere stato studiato da tempo, vista la complessità dell'operazione, le modalità dell'attacco e addirittura l'impiego di una nave che avrebbe garantito l'arrivo di decine di guerriglieri. Ma la concomitanza della strage con la visita del ministro pachistano non può essere liquidata come semplice casualità.
Alle spalle di questa vicenda ci sono le dichiarazioni del presidente del Pakistan Asif Ali Zardari nei giorni scorsi (di cui il Riformista ha dato conto ieri). Dichiarazioni con cui, facendo dimenticare la debolezza di un personaggio da molti accusato di sfruttare l'onda emotiva per la morte della moglie Benazir, ha lanciato un ramoscello d'ulivo all'India. Ha detto che il Pakistan è pronto a rinunciare al “first strike”, il diritto a colpire per primo, con l'arma atomica, in caso di rischi per la sovranità nazionale. Ha proposto una sorta di unione economica per favorire l'interscambio commerciale tra i due paesi e prefigurato una nuova politica di visti e permessi per facilitare le visite tra le famiglie che furono divise dal righello coloniale che fece nascere India e Pakistan dalle ceneri del Raj.
Ma Zardari ha fatto di più: il suo primo ministro ha ufficializzato lo smantellamento della sezione politica dell'Isi, il potente servizio segreto del Pakistan, considerato una pericolosa sentina di vizi tra cui le numerose devianze che l'apparato dell'intelligence coltivava con terroristi islamisti, progettando le operazioni che, dal Kashmir al Bangladesh, passando per l'India, dovevano colpire Delhi.
In questa chiave va visto persino l'Afghanistan, un territorio che per i pachistani non è soltanto un paese confinante. La famosa teoria per cui l'Afghanistan è una sorta di riserva territoriale strategica in caso di guerra con l'India, è all'origine di tutte le malefatte pachistane – a cominciare dai talebani che furono inventati e coltivati proprio dall'Isi – per tenersi stretta la terra dei pashtun, alleati “naturali” poiché condividono, a cavallo delle due frontiere, i montagnosi territori delle aree tribali e le pianure di Jalalabad, dell'Helmand e di Kandahar. Una miscela esplosiva.
E' dunque anche in questa chiave geopolitica che bisogna situare l'attacco senza precedenti di mercoledi sera. E leggerci fors'anche una reazione interna alle aperture di Zardari verso l'India, accompagnate dalla chiusura di un settore dell'Isi che, fino a ieri, ha fatto il bello e il cattivo tempo e che lo stesso Musharraf faticava a governare.
Nello stesso tempo, sostenere che c'è il Pakistan dietro alle stragi del Taj Mahal e dell'Oberoi o nel l'attacco al centro ebraico nel cuore finanziario dell'India, sarebbe riduttivo. In India non meno che in Pakistan c'è infatti chi lavora per tenere alta la tensione come ha dimostrato una sentenza recente per la quale, dietro a un attentato di matrice “islamica”, si era poi scoperto un nazionalista indù. Dalle due parti della frontiera c'è infatti chi gioca la partita della guerra continua, una partita dagli esiti incerti e disastrosi quando ad affrontarsi sono due paesi con l'atomica.

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