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giovedì 28 luglio 2011

KANDAHAR LA DEVOTA TRA TRAFFICI E TRADIZIONE

La tradizione dice che a Kandahar, dove ieri è stato assassinato il suo sindaco, si conserva l'antica kherqa del profeta Maometto, il sacro mantello che fu donato dall'emiro di Bukara nientemeno che ad Ahmad Shah Durrani, l'uomo che federò le tribù afgane e pose le basi dell'Afghanistan moderno. Anche la sua tomba si trova a Kandahar il che fa di questa città, la seconda del Paese, un'icona. Con una connotazione che nei secoli l'ha contraddistinta come devota, pia e conservatrice.

Quando mullah Omar la elevò a rango di capitale, scelse come dimora la residenza che sta di fronte alla moschea che custodisce la kherqa che una sola volta aveva esibito pubblicamente in una delle sue rare sortite dal palazzo bianco e sobrio eletto a quartier generale. A poca distanza, lo stadio della città era il teatro delle esecuzioni pubbliche e l'aria tutto sommato sonnolenta di questo villaggione di mattoni di fango ocra veniva turbata, oltre che dalle infelici esibizioni giudiziarie, solo dalle scorribande dei pick up talebani che, esercitando la coscrizione obbligatoria della gioventù kandaharina, si andavano a prendere i giovanotti direttamente a casa quando la guerra chiedeva sangue fresco. Metteva i brividi vederli.

Sotto i talebani Kandahar era la capitale di un medioevo islamico che Kabul aveva già dimenticato dagli anni Venti. Kandahar, ancor più della ricca Herat affacciata sul mondo persiano o della caotica Jalalabad, proiettata dal Khyer Pass nel subcontinente indiano, era rimasta arcaica, pia e silenziosa e nel contempo palcoscenico del tradizionalismo dei pashtun della pianura, reinterpretato in chiave ancor più oscurantista dai mullah di Omar. La guerra, che pure l'aveva duramente offesa durante l'occupazione sovietica, aveva lasciato poche tracce proprio perché i manufatti in cemento armato erano rari e dunque le case di fango, abbattute o ferite dalla battaglia, erano state rapidamente ricomposte o si erano liquefatte sotto il sole inclemente che trafigge quell'arida piana. I mullah avevano riportato l'ordine in una città che, dopo l'Urss, era caduta sotto il comando del mujaheddin Gul Agha Sherzai, oggi governatore del Nagahrar. Ma quando nel 1994 vi arrivarono le truppe di Omar, Kandahar era praticamente divisa tra quattro signori della guerra: “Se mia figlia doveva comprare il pane e attraversare la città – ci raccontò allora un ingegnere poco religioso che i talebani avevano obbligato a farsi crescere la barba – correva il rischio di quattro stupri”. E' che i talebani gli stupratori li decapitavano. Fecero di Kandahar il modello: la luce cui guardare dalla corrotta Kabul, dalla gaudente Herat, dalla furba Jalalabad.

Oggi la città è sufficientemente empia da essere irriconoscibile per chi l'aveva attraversata prima o durante i talebani. E' “corrotta” da un fiume di denaro e da una speculazione edilizia che non può competere con Kabul ma che aveva nel fratellastro di Karzai, quel Wali appena ammazzato da un suo sodale, uno degli emblemi di ciò che i talebani odiano di di più e che l'afgano della strada non può certo amare molto. I talebani però han dovuto far buon viso a cattivo gioco e accontentarsi di governare la provincia senza toccare Kandahar la empia, occupata da stranieri, sede di traffici d'oppio e di tondini di ferro imposti dal nuovo corso importato con la guerra. Controllano la città di notte. E un giorno spiegarono ai responsabili di un compound dell'Onu che quelle luci sulla strada, che ferivano il buio necessario alle loro spedizioni notturne, andavano spente. I funzionari eseguirono. A margine, in periferia, nelle campagne dettano legge. Nel centro trattano.

Non possono prendere Kandahar ma non la mollano. Da qui transita la logistica della Nato che frutta alla guerriglia – che ne garantisce il passaggio - almeno 200 milioni di dollari l'anno. Qui si fa il prezzo dell'oppio o dell'eroina. Si decide se quel palazzo potrà essere costruito senza che un attentato lo danneggi. Kandahr la pia, la tradizionalista. Kandahr, la empia la maledetta. Specchio di un Paese nel suo angolo più buio. Ammesso che la guerra conosca sprazzi di luce.

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