I numeri sono di una freddezza asettica e spesso nemmeno danno la dimensione della quantità reale. Ma soprattutto difficilmente riescono a veicolare il dolore. Quanto ne produce la morte di 2.421 persone, tanti sono i civili uccisi dalla guerra in Afghanistan nel 2010? La freddezza del numero acquista calore relativamente a qualcos'altro: e rispetto a 26,4 milioni di afgani, tanti si stima ne vivano qui, è un bilancio “minimo”. La diarrea ne uccide ogni anno di più. Ma se lo paragoniamo al dolore di una famiglia nel paese dove è più facile al mondo per una madre avere almeno un figlio morto? E poco conta se lo abbia ucciso un “Ied” talebano, una bomba della Nato o un proiettile dell'Ana, l'esercito afgano. La morte non ha sigle né acronimi.
Nel primo semestre di quest'anno – che già si profila come il peggiore – in Afghanistan sono morti 1.271 civili. Un aumento che all'ospedale di Emergency a Kabul Emanuele Nannini riassume così: “una linea retta in ascesa che va verso l'infinito...”. E' la guerra. Dopo dieci anni le vittime civili aumentano (così come quelle tra i soldati). Ai parenti non resta che quel dolore che, da lettori, rapidamente dimentichiamo passando a un'altra tabella, all'apparente neutralità delle percentuali, allo scarno successo sbandierato da un decremento del 64% in meno di morti e feriti causati da attacchi aerei.
Ieri pomeriggio a Kabul, a ricordare che dietro i numeri c'è il dolore, l'agonia delle famiglie, la perforazione infinita del sentimento, c'era un gruppo di italiani e americani che hanno incontrato i parenti delle vittime della guerra afgana. Una piccola cerimonia ma anche un gesto concreto: la prima delegazione di pacifisti europei (l'italiana Tavola della pace) che si azzarda a venire in Afghanistan per dare la propria solidarietà. E un coraggioso americano dell'associazione “September 11th Families for Peaceful Tomorrows.”, coraggioso due volte. Non solo perché non è facile venire a Kabul quando tutti te lo sconsigliano e c'è comunque sempre il rischio che ti succeda qualcosa, specie se hai quel passaporto. Ma anche perché nel suo paese, l'America, l'11 settembre viene ancora vissuto con un desiderio di vendetta da consumare e non come una data per cominciare a pensare che non è la guerra la soluzione al dolore.
Anche Paul Arpaia, la cui cugina poliziotta è morta cercando di salvare i suoi concittadini nelle Torri gemelle, è partito dal dolore. Ma ha preferito trasferirlo in un segno d'altro tipo che non quello – la guerra – che trasforma la nostra sofferenza in quella di qualcun altro.
Anche su Terra
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